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La payola e la radio americana: un legame ormai indissolubile?


La qualità offerta dalla radio attuale è ormai sotto la soglia d’attenzione
, è questo il grido d’allarme che si sta diffondendo in USA come nel resto del mondo. Negli ultimi anni l’alternativa offerta da internet, luminosa ma ancora strangolata da costi di produzione proibitivi in favore di guadagni ancora irrilevanti, ha messo in mostra gli enormi difetti della radio commerciale contemporanea, ormai schiava di scalette cristallizzate, di singoli-fotocopia, di DJ privi di personalità e cose da dire, ma soprattutto cronicamente incapace di proporre musica di qualità. Senza stare ad evidenziare le differenze con la radiofonia degli anni ’50, ’60 e ’70, avventurosa, avanti anni luce sotto il profilo artistico, rimane la certezza che i giorni delle scalette scelte e suonate dai DJ siano davvero passati, e da molto tempo. Uno dei motivi che stanno alla basedi questo netto calo, secondo molti analisti e critici, è da imputare alla payola, la pratica con cui le case discografiche sostengono i propri hit pagando le singole stazioni radio. Oggi i canali comunicativi si sono ovviamente moltiplicati, e il successo di un musicista dipende anche dal tour, da critiche favorevoli e dall’ovvia esposizione garantita da MTV, ma la radio rimane ancora il primo veicolo – sicuramente il più pervasivo – che una casa discografica ha a disposizione per incubare e produrre successi da classifica.
Il termine “payola” nasce dalla contrazione delle parole “pay”, pagare, e “Victrola”, nome di una vecchia e nota marca di grammofofni. Il primo scandalo legato alla payola risale al 1960: dopo aver scoperto le oscure trame che stavano dietro allo svolgimento dei quiz televisivi, il pubblico americano venne a sapere che molti DJ famosi avevano accettato regali in cambio di un trattamento di favore relativo ad alcuni pezzi. Il nome più noto al riguardo è quello di Alan Freed, star radiofonica del tempo che non riuscì mai a risollevarsi dallo scandalo – fu licenziato immediatamente – e morì da alcolizzato e nella miseria cinque anni dopo. A parte il caso di Freed, che penalmente se la cavò con poco, tutti gli altri indagati la fecero franca,cosa che indusse il Federal Communications Commission a varare subito alcune leggi apposite, rivelatesi evidentemente inadeguate, visto che da allora i gettoni della discografia hanno continuato ad influenzare sempre maggiormente le scalette delle stazioni radio di tutti gli States, contribuendo così in maniera attiva allo sfacelo attuale.

Da sempre un argomento delicato all’interno dell’industria, sussurrato al limite ma mai discusso apertamente, l’organizzazione dei pagamenti comunemente definita payola è rimasta nell’ombra per decenni, al punto che neanche un libro rivelatore come “Hit Men” di Fredric Dannen, uscito nel 1991, è stato capace di generare un qualsiasi impatto in materia. La classica punta dell’iceberg è emersa soltanto a metà dell’anno scorso, quando alcuni membri del Congresso hanno lanciato l’idea di aggiornare la legislazione relativa ai pagamenti occulti da parte delle case discografiche. Nonostante una legge che ne vieti espressamente la pratica, il sistema ha trovato varie scappatoie per eludere le leggi riguardanti i pagamenti delle major; secondo la Federal Communications Commission non c’è niente di male nell’accettare soldi in cambio di passaggi radiofonici e la payola – illegale – si verifica solo nel caso in cui le radio decidano di lasciare i propri ascoltatori all’oscuro sul pagamento e su chi l’ha effettuato. Tuttavia nessuna stazione ama dichiarare che l’hit del momento è in scaletta grazie ad un congruo compenso della Sony o della Universal, perché dopotutto è ancora preferibile lasciar immaginare all’ascoltatore che le canzoni siano scelte in base all’estro del disc jockey e dopo un accurato ascolto di tutte le novità della settimana. È a questo punto che entrano in gioco le pedine fondamentali: gli indipendenti.

Il sistema in uso oggi è molto più elaborato rispetto ai “regali” di 40 anni fa, e fornisce alle case discografiche il controllo diretto sulla scaletta di una stazione radio. Le major pagano agenti indipendenti (comunemente denominati “indies”), che spesso si aggregano e formano addirittura studi ed organizzazioni apposite, per avere una canzone in rotazione, e l’agente gira parte del denaro ad una determinata stazione, con lo scopo di persuadere il direttore della programmazione ad inserire il singolo fra i dischi caldi. Un buon modo per generare maggior profitto consiste poi nel convincere le stazioni a suonare più canzoni della stessa casa discografica. Succede così che molte agenzie indipendenti spingano affinchè i brani vengano aggiunti alle scalette notturne e si presentino poi a batter cassa presso le major. Risultato: brani di artisti “minori” (ovviamente i più bisognosi sotto il profilo commerciale) che vengono passati a notte fonda, senza apportare alcun beneficio se non ai conti in banca degli indipendenti. Le stazioni e i conglomerati amano chiamare questo giro di denaro “promozione”, eufemismo che maschera una pratica capace di garantire introiti elevati e, in certi casi, addirittura far quadrare il bilancio annuale. Non è sempre stato così, dato che un tempo il compito dei cosiddetti “agenti indipendenti” era quello di fornire un raccordo fra case discografiche e stazioni radiofoniche: un buon agente telefonava di continuo alle radio, cercando di convincere DJ e direttori a programmare un determinato singoloper le settimane successive, e solo pian piano questo ruolo è arrivato ad accumulare un’importanza economica sempre maggiore.

Solo negli ultimi due decenni gli indipendenti sono diventati fondamentali. Negli anni ’90 molte cose sono cambiate, a partire dalla deregulation dell’industria radiofonica (il Telecommunications Act del 1996 in particolare), ansiosamente voluta da Washington, che ha portato circa il 60% delle stazioni radio americane nelle mani di soli tre conglomerati. Da qui in poi, il mercato degli indipendenti è divenuto un business molto più grande e oggi non esiste stazione commerciale che non abbia uno o più agenti o agenzie di riferimento.
Ma quali sono i numeri di questa avanzata forma di payola? Ci sono circa 10.000 stazioni commerciali negli Stati Uniti, e 1.000 di queste – le più grandi ed influenti – sono utilizzate dalle case discografiche per produrre hit e vendere dischi. Ognuna di queste emittenti aggiunge almeno tre canzoni nuove nella playlist ogni settimana, e gli indipendenti vengono pagati in media circa 1.000 dollari per un’aggiunta ad una radio Top 40 o Modern Rock, anche se in certi casi si può arrivare a 6.000 o persino 8.000 dollari. In totale l’industria spende 3 milioni di dollari a settimana, e solo per assicurarsi che ipropri singoli di punta arrivino sulle onde radio degli Stati Uniti. Se poi un determinato singolo inizia ad avere successo, può arrivare a costare anche un milione di dollari per essere “mantenuto” fra i dischi in rotazione per più di qualche settimana. In uno scenario come questo è chiaro che le case discografiche, direttamente responsabili nella creazione del mostro-payola, stiano diventando ansiose di fermare il potere degli agenti e dei conglomerati. Negli ultimi anni molti contratti hanno cercato di impattare i costi riducendo i guadagni degli artisti promossi, cosa che non può certo avvenire nel caso in cui un determinato singolo o album si riveli un flop. E flop è la parola più temuta al giorno d’oggi, quando la crisi dell’industria continua a galoppare senza sosta – è di pochi giorni la notizia che solo tre dischi negli USA, quest’anno, sono riusciti a superare la soglia dei 5 milioni di copie vendute – e le tariffe sborsate alla radiofonia stanno diventando insopportabilmente alte.

Un nuovo salto di qualità (o, se vogliamo, una nuova escalation) nella vicenda potrebbe essere dato dalla fusione fra Clear Channel e Tri State. Clear Channel è il più potente conglomerato radiofonico americano, esteso su più di 1200 stazioni e capace di estendersi da costa a costa, mentre Tri State è la più grande agenzia indipendente degli Stati Uniti. I due giganti collaborano da lungo tempo, ma l’accordo recente impone a tutte le stazioni orbitanti intorno a Clear Channel di firmare un esclusivo accordo con Tri State e lasciare ogni altro indipendente. Un simile abbattimento della concorrenza lascia temere che i prezzi non faranno altro che lievitare nel futuro a medio e lungo termine, e non dev’essere un caso che il putiferio relativo ai pagamenti occulti sia emerso quasi immediatamente dopo le prime voci che annunciavano l’accordo.
Come superare questa empasse, che in futuro promette di diventare anche più difficile? Le soluzioni proposte sono tante, ma l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo è che sarà un’impresa quasi impossibile, visto che la payola è diventata una consuetudine in cui troppe forze sono pesantemente invischiate. A parte i naturali scaricabarile – l’industria accusa le radio di aver portato alla situazione attuale, le radio sostengono che tutto è stato generato dall’avidità dell’industria – che dimostrano solo quanto il circolo si sia fatto vizioso, c’è chi sostiene che un buon rimedio potrebbe essere quello di prendere il toro per le corna e lasciare che siano direttamente gli artisti a pagare le proprie apparizioni radiofoniche, soluzione per la verità complessa e che sotto il profilo morale tende a portare alla luce del sole la payola, senza preoccuparsi affatto di debellarla. I sostenitori di questa tesi ritengono però che un sistema simile sarebbe più equo rispetto alle clausole relative ai“costi di promozione” che oggigiorno vengono aggiunte su ogni contratto discografico. Inoltre, continuano, sarà fornita visibilità radiofonica a molti più musicisti, e questa sarà una mossa decisiva nell’aumento della scelta e della qualità musicale che circolerà nell’etere.


Bernardo Cioci


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