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Elvis Presley 16 agosto 1977
I giornalisti che furono spediti a «coprire» la morte di Elvis Presley quel 16 agosto 1977 non hanno ancora dimenticato. Erano centinaia e alcuni avevano seguito rivoluzioni, colpi di Stato, funerali di statisti e re, o la guerra del Vietnam. Ancora oggi, dicono che i giorni della morte di Elvis e del funerale furono molto, molto peggio.
Tra trucchi piccoli e grandi, sgambetti e concorrenza spietata, il colpaccio del National Enquirer trova ancora oggi ampio spazio nelle antologie sul giornalismo «giallo» che negli Usa sta per sensazionalistico.
Se il giornalismo americano è molto competitivo quello del National Enquirer (che allora era ancora un quindicinale) è il più competitivo di tutti.
Un'intera squadra di reporter caricati di peso su un aereo appositamente noleggiato in Florida, dove aveva sede il periodico. Il mandato del direttore era semplice: «Non importa cosa mi portate, ma deve essere sensazionale. E non deve averlo nessun altro».
Ricorda uno dei reporter: «Sapevamo che avremmo dovuto scovare qualcosa di impossibile, perché c'erano tutti i giornali e tutte le Tv e noi non saremmo usciti che 10 giorni dopo. Lo sapevamo così bene che già sull'aereo privato avevamo deciso di puntare tutto sulla foto nella bara».
Non si sa nemmeno oggi chi sia stato. Fonti dell'Enquirer giurano che fu un cugino di Elvis. Ma l'impresa fu talmente eclatante e indispettì talmente il clan di Elvis che ancora oggi c'è chi pagherebbe qualsiasi cosa per mettere le mani sull'autore del colpaccio.
Comunque sia, armato di una Minox da spia del costo di 300 dollari, «qualcuno» riuscì a prendere l'unica foto di Elvis nella bara.
La foto, tremenda per lo stato in cui era ormai il «Re» sfatto dall'alcool e dalle pasticche, invano paludato in un completo color crema con camicia azzurra e cravatta a strisce, fu pagata 75.000 dollari dieci anni.
Il presidente ed editore del settimanale Iain Calder si rifiuta di rilevare l'autore o confermare la cifra: «Sono segreti, no?
L'importante è che quel numero stabilì il nostro record assoluto, sei milioni di copie».
Il giallo della foto ebbe anche una cosa, anch'essa gialla: la foto sparì da una cassaforte dell'Enquirer, e fu anche chiamata la polizia.
Dipendenti del periodico uscirono in manette. Pare che avessero progettato di stampare migliaia di t-shirts con la tragica immagine.
Un sintomo delle follie di quei giorni d'agosto.
Bob Kendall dice che fu un funerale più grandioso mai avuto da un privato cittadino negli Stati Uniti. Lui lo sa perché era il direttore della Memphis Funeral Home. C'erano disposizioni precise dal clan di Elvis, evidentemente dettate dal Re in persona: la bara doveva essere esattamente come quella della madre, di rame. Non ce n'erano a Memphis e dovette farla arrivare in volo da Okhlahoma City. Il vero problema fu il corteo: volevano diciassette Cadillac bianche. Ma ce n'erano solo tre in tutta Memphis e dovette rastrellare anche a centinaia di chilometri di distanza.
Furono ore frenetiche, in cui Kendall non ebbe nemmeno il tempo di rispondere ai giornalisti che lo assediavano alla ricerca di ogni minimo particolare. Mentre ventimila persone, decine delle quali svenivano per il caldo nell'attesa, facevano pazientemente la coda, in lacrime per poter entrare a Graceland a pagare l'ultimo tributo al Re.
Ci fu anche un altro episodio tragico e folle: alle prime ore del mattino di lunedì proprio davanti al Graceland, la grande residenza di Elvis dalle bianche colonne, un uomo investì in pieno la folla di fans che vegliavano. Due morti, un ferito grave. L'automobilista fu accusato di omicidio colposo e ubriachezza al volante.
Al cimitero, dove già erano in vendita ai cancelli gli «stichers» per l'automobile con la scritta «Elvis vive. Lunga vita al Re» (prezzo di un dollaro e primo esempio della commercializzazione del mito), ne successero di tutti i colori. Oltre 4500 corone e cuscini, molti a forma di chitarra, tutti inviati da fans adoranti furono spogliati completamente da ammiratori alla ricerca di un ricordo. Finiti i fiori, cominciarono a portarsi via zolle erbose. Sembrava un campo di battaglia. Un altro effetto immediato fu la folle richiesta di dischi: la Rca dovette andare per settimane con turni di lavoro di 24 ore su 24 ore per far fronte alla domanda. L'amore e il desiderio dei fans di tenersi un ricordo (oggi in effetti sono ricercati a prezzi da collezione) mise nei guai per mesi gli organizzatori della tournée che Elvis avrebbe dovuto cominciare proprio il giorno del suo funerale.
Avevano 600.000 dollari di biglietti da rimborsare e non c'era un fan che volesse restituire il prezioso tagliando.
Poi ci furono le controversie sulla morte stessa. Il decesso di Elvis, a 42 anni, fu ufficialmente attribuito ad «aritmia cardiaca» causata da «motivi indeterminati». Il medico personale George Nichopoulos dapprima negò che il Re avesse fatto uso eccessivo di vari medicinali.
Ma due anni più tardi, il dottor Nichopoulos si vide sospesa la licenza per prescrizione eccessiva di farmaci. Tre mesi dopo la morte, il medico legale ammise che nel corpo di Elvis era stata constatata la presenza di dieci farmaci diversi. Ma i familiari e il clan si opposero alla pubblicazione dei risultati dell'autopsia.
Joe Esposito, «road manager» cioè a capo dell'organizzazione per concerti e tournée di Elvis, ammette solo oggi, che il clan e la famiglia riuscirono piuttosto bene a proteggere la memoria del Re: voci e illazioni tanti, fatti pochi. Esposito ammette: «Erano farmaci in commercio. Niente di illegale.
Tutti intorno a Elvis prendevano pasticche, pasticche per stare su e darci dentro, pasticche per andare a dormire. Era il ritmo che ci costringeva. Certo, come tutti sanno, Elvis faceva tutto in eccesso.
Ecco che cosa è successo. Certe volte penso che sia veramente un peccato, fosse successo oggi con la gente che dà alle pasticche molta meno importanza, visto il dilagare di ben altre cose, Elvis avrebbe avuto meno pressioni, forse avrebbe trovato aiuto».
Tupelo, Mississipi.
È l'alba. Ma i parcheggi oltre il fiume sono pieni di automobili, con le targhe di tutti gli Stati dell'Unione. Centinaia di persone sono già pronte, e ancora non verranno aperti i battenti per ore in quella sorta di baracca, dove è nato il mito. La baracca senza quella distinzione particolare legata ad Elvis, non meriterebbe uno sguardo. Fu costruita dal padre Vernon con le sue mani, con 180 dollari presi in prestito e con l'aiuto di qualche parente, a poche centinaia di metri dalla casa del nonno di Elvis.
Ma la visita al luogo natale di un mito americano è importante per gli americani e la conferma di una delle filosofie dominanti in questo paese. E si può toccare quasi con la mano la squallida povertà in cui è nato e cresciuto qualcuno che è poi diventato anche più importante di un presidente. Solo con le sue doti, un po' di fortuna e tanta volontà di sfondare. L'arredamento della casetta sembra quello di un film sui pionieri: in realtà molti pezzi, come la madia per la torta di mele, l'armadio e la stufa sono stati donati in seguito o restaurati. Non importa: per i pellegrini il luogo è mistico, è come se fosse una certa di stalla di Betlemme. Ci vanno in 35-40.000 all'anno ma questo è un anno speciale. Infine proprio dietro la casa natale la Elvis Presley Memorial Chaple, completata alla fine degli anni Settanta con contributi di fans di tutto il mondo. Ospita 12 file di banchi, un pulpito donato dal decano delle congregazioni pentecostale padre Tilley e sul pulpito la Bibbia personale di Elvis, donata da suo padre. Al centro un'enorme vetrina colorata che prende tutta una parete: mostra una figura vestita di bianco, le braccia protese verso una croce più in alto circondata da stelle e pianeti e sormontata da una corona. Una corona da Re.
Ernesto de Pascale
articolo pubblicato su La Nazione il 17 agosto 1986
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