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Chicago Blues Festival

Il viaggiare per andare incontro alla musica è sempre un’avventura straordinaria; poter in qualche modo calarsi nell’ambiente dove la musica che sia ama è nata, ti fa comprendere meglio cosa vuol dire far parte del “popolo del blues”.
Sbarcato sulle sponde del lago Michigan, nella Windy City, il giorno prima dell’inizio del Chicago Blues Festival ho subito sentito la sensazione di dovermi calare in un ambiente dove della musica del diavolo si sente ancora una forte presenza, ma nel contempo non è più così considerata come decenni fa, tanto da sentir dire dagli addetti del settore che non gode di ottima salute, visto che la comunità nera si sta orientando verso altri generi musicali. Forse in qualche modo un fondo di verità può esserci, sta di fatto che il festival, agli occhi di un viaggiatore europeo, dà tutt’altra impressione. La rassegna che si svolge abitualmente alla metà di giugno di ogni anno, è considerata la più grande “open air” ad ingresso libero, e quest’anno era dedicata all’appena scomparsa Koko Taylor (tanto da essere stato allestito a lato del palco principale una sorta di altarino).
Tre giorni fitti di musica (dalle dodici fino alle ventidue), con quattro stages a disposizione di un centinaio d’artisti, in solo o accompagnati da gruppi a volte assai numerosi. Il tutto ospitato al Grant Park, un vero e proprio posto magico che, con il Millennium Park, costituisce un polmone verde, situato sulla Magnificent Mile, dove architettura, musica e vita all’aria aperta si fondono creando un connubio quasi unico. Ma il racconto di tutto ciò sarebbe lungo.
Come è prevedibile un festival di queste dimensioni attira da ogni parte degli Stati Uniti (ma anche del resto del mondo) parecchie centinaia di migliaia di persone che in modo molto tipicamente americano arrivano in prossimità del palco armati di sedie pieghevoli (però dotate di ogni comodità inimmaginabile) e ogni genere di conforto stipato in borsefrigo di dimensioni extra (anche perché il cibo venduto dagli stand alimentari è quasi immangiabile), e si accomodano per gustarsi lo show, in modo molto civile, mai accalcandosi e avendo molto rispetto per chi gli sta davanti e magari ha un modo più “agitato” di seguire il concerto.

Insomma un popolo pacifico, e molto eterogeneo, che si ritrova per vivere il blues. Così, grazie all’organizzazione del municipio di Chicago, si è potuto assistere a una serie di spettacoli che hanno abbracciato ogni epoca e genere di blues: passando dall’incedere del Delta di David “Honeyboy” Edwards (classe 1915 che avuto la fortuna di conoscere Robert Johnson) alle armoniche ammaliatrici di Charlie Musselwhite e Grady Champion, dalla contagiosa vitalità di Lil’ Ed and The Blues Imperials alle straordinarie performance degli allievi della scuola di musica di Ferdando Jones (che poi lo si poteva trovare in giro per gli stand della rassegna a improvvisare jam session con altri musicisti, cosa normale in questo luogo), dal gospel-blues di Lou Pride and The Blues Disciples alle sonorità elettriche di Big Bill e Mud Morganfield (figli di Muddy Waters, che hanno ospitato sul palco due pezzi di storia: Pinetop Perkins e Willie “Big Eyes” Smith), per arrivare poi a Eddie C. Campbell, Shirley Johnson, Cyrus Hayes & Lady Lee, Sam Lay, Laurrie Bell (solo per citare quelli che più mi hanno impressionato e ho avuto modo di ascoltare con più attenzione).

Ma una menzione d’onore se la meritano due grandi star del blues-soul: Bettye LaVette e Sharon Jones, che hanno offerto due performance che da sole potevano valere il viaggio. Entrambe supportate da una band di molti elementi non si sono risparmiate e hanno donato agli astanti due concerti di rara intensità e potenza, dove il pubblico a stento poteva resistere all’impulso di alzarsi e ballare.
In mezzo a questa valanga di musica di certo tutto non poteva essere perfetto; infatti tra i concerti a cui ho assistito l’unico che mi ha veramente deluso è stato quello di Jeremy Spencer, che ha proposto uno show lento e poco interessante, sia dal punto di vista interpretativo che di presa nei confronti del pubblico.
In ogni modo venire a Chicago per assistere a questo festival mi ha dato modo di vivere il blues con chi fa e lo respira dalla mattina alla sera, il tutto amplificato da una città molto affascinante sotto molti aspetti, che sa cambiare faccia come cambia il tempo.

Riccardo Santangelo

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