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INTERVIEW

The Decemberists

Nel loro nuovo album, The King is Dead, i Decemberists hanno scelto la strada del country, del folk, della semplicità. Si presentano paragonandosi ad un classico come Harvest di Neil Young, che il loro leader Colin Meloy descrive come “la quintessenza del disco da fienile”.

E' proprio la ricerca di un disco “da capannone agricolo in aperta campagna”, con gli orpelli musicali ridotti al minimo, che ha segnato la realizzazione della sesta fatica discografica della band di Portland, Oregon, la terza consecutiva per la Capitol.

A raccontarne i retroscena è Jenny Conlee, tastierista e multistrumentista del quintetto statunitense: “Neil Young è un riferimento importante. La campagna è per noi ispirazione, la nascita di  The King is Dead è legata all'uscire dalla città e trasferirsi in un luogo diverso, più country, cosa successa veramente. Abbiamo registrato il disco in un vecchio casolare con l'idea di suonare tutto dal vivo. Poi ci siamo resi conto che non solo questo non era possibile, ma certe volte era anche ben più complicato, quindi abbiamo dovuto mediare rispetto all'idea originaria. Ma non importa: lo spirito e l'energia di un disco suonato dal vivo rimangono e questo è l' importante”.

Attraverso un folk all'antica dalle contaminazioni moderne e indie rock che è diventato una delle caratteristiche cardine del loro sound, i Decemberists sono riusciti anche questa volta a mettere a segno un album  riuscito: “la musica tradizionale ha un ruolo importante per noi come guida e  ispirazione. Ci piace la musica inglese, in particolare  il folk revival degli anni '60. Però nell'album c'è anche tanta America”.

Come una folta schiera di predecessori insegna, nella musica spesso limitarsi all'essenziale è la cosa più difficile. E' quella logica del “less is more” a cui anche i Decemberists sembrano essersi attenuti questa volta: “E' un'idea molto importante e difficile da raggiungere. Semplificare è più difficile che eccedere. Nel nuovo disco abbiamo cercato di attenersi a questa linea sia nella musica che nei testi. I brani raccontano storie ma non lo fanno mai con testi troppo verbosi e articolati. Le parole sono poche e selezionate. Abbiamo privilegiato il flusso, l'andamento. Anche per gli ospiti è stato così. Siamo partiti dall'idea di averne molti, e di certo ci sarebbe piaciuto, ma alla fine abbiamo privilegiato la partecipazione di pochi amici. Anche negli arrangiamenti abbiamo evitato scelte troppo pompose e sinfoniche”.

Per la band, nata nel 2000, la notorietà internazionale è arrivata con il precedente album The Hazards of Love, un'ambiziosa suite narrativa nata ispirandosi all'omonimo EP d'esordio della folk singer Anne Briggs (anche se il lavoro finito con la Briggs ha ben poco a che vedere). The King is Dead è un disco diverso, che Jenny descrive così: “Per Colin, The Hazards of Love è stata una sorta di sfida con se stesso: qual'è il disco più elaborato e complesso che posso riuscire a scrivere?  The King is Dead nasce invece dall'idea opposta. Colin aveva dei brani rimasti esclusi dal disco precedente ai quali ha rimesso mano. Ci mancava la possibilità di suonare canzoni semplici e dirette”.

Sembra quasi che in The King is Dead quest'idea della semplicità, che così insistentemente ritorna nel parlare con Jenny, sia una sorta di filo conduttore. Nel caso del precedente disco a far da guida era stata la trama narrativa, altre volte il gruppo si era basato su spunti tratti dalla tradizione popolare. “Accade che nei nostri album ci sia un qualcosa che fa da collante, senza che per forza sia un concept” - riflette Jenny - “ma non è un obbligo. Quando nel 2006 abbiamo fatto The Crane Wife ci siamo basati su un racconto Giapponese. Alla fine, però,  nel disco è finito anche qualche brano meno legato all'idea di partenza. Il nostro primo disco era semplicemente una raccolta di canzoni. Poi c'è stata un'evoluzione che oggi ci porta ad attenersi a delle idee guida”.

Jenny ha contribuito alla buona riuscita dell'album con una vasta schiera di strumenti a tastiera: “mi piace suonare tanti strumenti. Uno dei brani di cui sono più soddisfatta strumentalmente è Rise To Me. Ne ho incisi circa 40 take, partendo da versioni più complesse in cui però mi sembrava di suonare sempre troppo. Gradualmente ho ridotto quello che stavo facendo fino alla versione definitiva”.

Come l'album precedente, anche The King is Dead è prodotto da Tucker Martine, marito della cantautrice Laura Veirs che all'album partecipa come ospite: “Abbiamo scelto di lavorare con lui perché è il produttore dei dischi di Laura e ci piaceva molto il tocco che aveva portato nei suoi album” - commenta Jenny - “Ha influito sulla completezza del suono. Ci ha aiutato a raggiungere la semplificazione che cercavamo. E' stato essenziale nello scegliere il giusto take tra i tantissimi che avevamo realizzato. E poi ha decretato l'evoluzione decisiva di alcuni brani, ad esempio Down by the water era nata come una canzone folk guidata dal banjo ed è finita per essere un brano rock”.

Quanto agli altri ospiti, Jenny si sofferma in modo particolare sulla presenza di Gillian Welch, quasi una costante su molti dei brani del disco. “Una persona fantastica” - la definisce - “e con una bellissima voce”

Sul futuro di una band così in crescita, però, Jenny Conlee non si sbilancia: “Ci piacerebbe venire a suonare in Italia” - dice  “ma questa volta non accadrà. Sono felice del percorso della band, sapevamo che sarebbe durata e che c'era un grande potenziale. Siamo passati attraverso diversi generi senza rinunciare mai a niente di noi stessi”

“Adesso però – prosegue la Conlee, cogliendoci di sorpresa – è tempo per una pausa. Non so dirti molto dei nuovi progetti. Colin ha delle nuove idee e dopo questo disco ci fermeremo per un po'”. Dissapori e frizioni, viene da chiedere? “Niente dissapori” - rassicura Jenny - “solo una  pausa di riflessione, però non so quanto durerà. Certo è che l'avventura con i Decemberists non finisce qui”.


Giulia Nuti


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