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INTERVIEW

America, la forza del country  

Lucky guys from the seventies 

«Siamo stati fortunati. Vivevamo in Inghilterra dove i nostri padri lavoravano nelle basi delle forze armate americane. Abbiamo ascoltato Jimi Hendrix e altri grandi del rock, ma anche i Beach Boys, i Buffalo Springfield, artisti che ci piacevano per il loro stile. Così abbiamo cominciato anche noi a fare musica». Quella di Dewey Bunnell e Gerry Beckley è una storia musicale che dura ormai da 40 anni sotto il nome America e che li ha portati in Italia per sette concerti (tappa inaugurale a Firenze, Teatro Verdi). Una carriera, iniziata insieme a Dan Peek che lasciò il gruppo nel 1977, con un inizio folgorante grazie a due album America (1971) e Homecoming (1972) che contengono alcuni classici del loro repertorio, a partire da A Horse with No Name, I need You, Riverside, Sandman dal primo (disco di platino) e Ventura Highway (singolo realizzato con la collaborazione di Neil Young) e Don't Cross the River dal secondo. Una parte di questi è stata proposta nella sezione centrale del concerto in versione acustica mentre l’inizio è stato affidato a Tin Man del 1974. L’unico brano non loro suonato durante il concerto è a suo modo un manifesto. California Dreamin’, per continuare a sognare dopo 40 anni.

 

Chiediamo a Gerry Beckley il segreto di questa longevità.

«Fare un gruppo dove non ci fosse un leader e che quindi potesse contare sull’equilibrio tra di noi. Con Dewey Bunnell inoltre eravamo amici ancora prima di suonare insieme».

Come affrontate un presente fatto di musica scaricata da internet piuttosto che di acquisto di dischi?

«Devo dire che siamo molto fortunati perché continuiamo a vendere i nostri album e perché a differenza di molti colleghi possiamo allestire uno spettacolo prendendo brani da un repertorio molto ampio».

Come avete caratterizzato il concerto?

«Una partenza molto forte con tutta la band, per poi inserire a metà scaletta un momento acustico con i brani tratti dal primo album».

Lei è americano, ma il suo collega Dewey Bunnell è inglese. Come è riuscito a entrare in sonorità Country rock, o meglio in quelle della West Coast?

«Vedo che l’Europa, più che negli Stati Uniti, ama dividere la musica in generi. In Francia ad esempio ho ascoltato una radio che faceva solo musica West Coast. Eppure sia noi sia altri colleghi non proveniamo dalla costa occidentale degli Stati Uniti. Ad esempio gli Eagles vengono da Detroit, mentre Joni Mitchell e Neil Young arrivano dal Canada».

Non siete stati mai considerati un gruppo militante eppure Sandman, uno dei vostri brani più famosi, è una canzone che parla contro la guerra del Vietnam...

«Non è tanto contro, piuttosto sulla guerra del Vietnam. Eravamo a Londra in quel periodo e spesso incontravamo militari che facevano tappa tra gli Stati Uniti e il fronte, così è nata quella canzone».

Voi avete partecipato anche al festival di Sanremo, cosa ricorda di quell’avvenimento?

«Era un bel periodo per noi perché nel 1982 promuovevamo Survival che è stato un nostro grande successo. Mi ricordo però una grande confusione in quel teatro: pensi che dovevamo condividere il camerino con altri colleghi come Van Halen e Stray Cat».

Oggi cosa ascolta?

«Mi piacciono molto nuove realtà come i Low. Inoltre c’è una band che viene considerata molto vicina al nostro suono, i Fleet Foxes, un ottimo gruppo. Però al tempo stesso continuo ad ascoltare i brani di John Lennon e Paul McCartney».

Torniamo ai dischi, avete qualche progetto in ponte?

«Dopo l’album che ha raccolto i nostri successi più alcuni inediti, faremo uscire Back Pages, il nuovo lavoro che contiene cover di Paul Simon, James Taylor, Joni Mitchell, Neil Young, Brian Wilson. E Bob Dylan».

Michele Manzotti


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