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Lou Reed
Arezzo P.zza Grande 8 luglio 2007

Sono passate da poco le dieci quando le note di pianoforte introducono la title-track dell’album che Lou Reed ha deciso di portare dal vivo a distanza di più di trent’anni.

I primi venti minuti sono intensissimi, con la band che letteralmente aggredisce l’audience con un suono avvolgente e tagliente dominato dalla chitarra di Steve Hunter, a cui viene dato ampio spazio da un Lou Reed che accenna sorrisi poco amalgamati con il volto, sempre più simile a quello di Boris Karloff.

La presenza del coro e di una sezione fiati e archi contribuisce a gonfiare il sound e colorarlo di un’enfasi che va d’accordo con le improvvisazioni su ‘Men Of Good Fortune’ o di ‘How Do You Think It Feels’.

Man mano però che il concerto va avanti e, filologicamente al disco, si addentra nei brani che narrano la tragedia, si è come distratti da un senso di lento distacco. È come se le canzoni avessero perso quella loro malata e toccante tragicità e fossero diventate “solo canzoni”. ‘Caroline Says II’ diventa così una dolce ballata e non una denuncia di percosse e di violenze.

Se da un lato la musica di ‘Berlin’ pare non essere invecchiata, quello che essa canta, per una società cinica e assuefatta ad ogni tipo di violenza come la nostra, ha come perso parte della sua essenza tragica e nichilista. Certo, le voci dei bambini nel finale di ‘The Kids’ continuano a dare i brividi, così come le parole di ‘The Bed’: “I never would have started if I’d known that it’d end this way but funny thing, I’m not at all sad that it stopped this way”. Ma i tempi sono cambiati, proprio come cantava Bob Dylan, e le canzoni di ‘Berlin’ stasera hanno loro malgrado perso una parte della loro essenza.

Viene quindi da chiederci cosa è che ha spinto Lou Reed a portare dal vivo oggi, nel 2007, un album come questo: per provare a risvegliare le coscienze? Per tributare a se stesso un omaggio, dal momento che per anni ‘Berlin’ fu considerato un passo falso nella sua carriera? Forse, più semplicemente, anche lui ha voluto cantare alcune delle sue più belle canzoni senza stare a pensarci troppo su. Ascoltando le versioni di ‘Sweet Jane’ o di ‘Satellite Of Love’, la prima con tanto di arrangiamento di fiati e la seconda cantata in parte da Fernando Saunders, l’impressione è quella di un Lou Reed sereno che ha lasciato New York per trasferirsi a Las Vegas seguendo le orme di Elvis. It’s entertainment! – è intrattenimento - e di prima qualità, perché i concerti di Elvis a Las Vegas erano davvero un esempio di grande intrattenimento, e forse anche ‘Berlin’ altro non è che questo. E se va bene per chi lo ha scritto, non possiamo che esserne contenti.

Jacopo Meille


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