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Damien Rice,
Teatro Saschall, 12 marzo 2004
Living Colour,
Auditorium Flog, 17 marzo 2004


È un marzo importante per la Firenze musicale. Dalla Sun-Ra Arkestra ad Horace Andy, dai Waterboys ai Love di Arthur Lee, molti appuntamenti di rilievo affollano un mese che sarà senz’altro ricordato tra i più prolifici degli ultimi tempi.


In un simile contesto, l’arrivo di Damien Rice è annunciato un po’ a sorpresa, sia perché lo gestisce il Musicus Concentus, associazione nota più per la promozione del jazz e delle avanguardie contemporanee che per simili avvenimenti “di cartello”, sia perché la piega presa ultimamente dalla sua carriera è davvero folgorante. Dopo anni e anni spesi a fare il musicista di strada (ha vissuto persino a Pontassieve, per diversi mesi) è arrivato il silenzioso debutto nel 2002, con O, e poi la lenta ascesa verso lo status di star nella natia Irlanda. Tutto questo fino alla pubblicazione internazionale del disco, avvenuta lo scorso settembre, e nel tempo di qualche mese i consensi si sono ampliati a tutta Europa. Peccato, dunque, non poter ascoltare questa neonata star nella bella cornice della Sala Vanni, accantonata in favore del più capiente Saschall a causa di una richiesta biglietti tanto enorme da cogliere di sorpresa l’organizzazione. Una scelta obbligata, ma che probabilmente influisce sulla qualità sonora del concerto, visto che i suoni sembrano calibrati su sale piccole e non su di un teatro tanto ampio come può essere il Saschall, col risultato di creare due concerti quasi distinti, uno nelle vicinanze del palco ed uno dalla seconda metà dei posti fino in fondo, con buona pace di chi ha comprato i biglietti in ritardo. Peccato, perché dal vivo, la musica di Damien è senza dubbio più potente che su disco, giocata com’è sull’alternanza forte/piano che in fin dei conti è la carta vincente davanti un pubblico “alternativo” (e compostissimo, come mai era capitato di vedere da queste parti) di un certo tipo. Scorrono Delicate, Cannonball, Volcano, ed anche qualche pezzo nuovo che traduce quell’anima elettrica un po’ latitante sul disco.

Rice porge al pubblico le sue scuse, perché Lisa Hannigan, cantante insieme a lui su molti pezzi e che le cronache dipingono come beniamina dei fan, si è sentita male ed è tornata in Irlanda, incidente che non gli impedirà di regalare grandi versioni di Cold Water ed Eskimo. Sul finale arriva anche il divertessement di Seven Nation Army dei White Stripes suonata dall’ottima violoncellista Vyvienne Long, coincidenza non da poco alla luce di quanto sentiremo qualche giorno dopo.

Da una stella del presente a quattro musicisti che lo erano in passato: dal Saschall pieno e silenzioso si passa infatti ad una Flog stipata all’inverosimile, ci suonano i Living Colour e questa folla (di età media, va detto, piuttosto alta) ha un motivo preciso, se si pensa che non più di un decennio fa i quattro newyorchesi erano fra i gruppi rock più noti del mondo. Fa comunque piacere constatare che, nonostante un disco pubblicato di recente (Collideoscope), la reunion avvenuta nel 2000 si mantenga su un livello di basso profilo, privilegiando solamente i notevoli aspetti musicali. Musica e solo musica: per una band che a suo tempo era vista come una mosca bianca, e che spesso si trovava a dover affrontare domande sulla Black Rock Coalition o sullo stato dell’America nera, non è proprio cosa da poco.
Si parte subito con un classico, Middle Man, e Vernon Reid conferma di essere un chitarrista eccezionale, capace di macinare un secolo di musica nera e bianca nel giro di una semplice canzone, ma sia la sezione ritmica che il cantante Corey Glover non sono da meno, del resto tutta la band è nota da sempre per essere una delle più tecniche e complete in ambito rock. I classici ci sono tutti, Cult of Personality, Glamour Boys, Bi, Leave It Alone, gli stili toccati spaziano dal metal al soul, dal raggamuffin al funk, e durante il falsetto di Love Rears It’s Ugly Head appare chiaro che quella dei Living Colour sia stata una delle pochissime forme pure di crossover, termine che indicherebbe la fusione completa fra musica nera e bianca, molto di moda a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 e assolutamente indefinito oggi. Dei pezzi nuovi piace invece Flying, un funk-pop scritto bene anche se non particolarmente memorabile, mentre deludono gli esperimenti dove si vuole inserire l’elettronica giocoforza, esperimento in cui cadono diverse band coeve a Vernon Reid e soci, e che spiace veder fallire nel contesto di un’esibizione tanto riuscita. Immancabile poi (?), anche per loro, una cover fedelissima di Seven Nation Army, buona canzone che però non regge gli allori di Grande Canzone Pop che molti, di questi tempi, vorrebbero conferirle.

Bernardo Cioci




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