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Killing Floor - Zero Tolerance
(IRD)


Per la recensione dell’album di ritorno dei Killing Floor, uno dei gruppi minori del tardo blues inglese che con i Savoy Brown di Kim Simmonds e i Chiken Shack di Stan Webb appartennero al filone “ciuchedelico“ (mai sentito il termine? lo coniò Ciao 2001 nel 1973 e descrive bene lo stato di ebrezza costante di molti rocker del periodo) sono andato a rispolverare i due, peraltro rari, dischi della formazione, “Killing Floor”, del 1969, ristampato nei tardi settanta dalla Sparks ma reperibile per brevissimo tempo, e “Out of Uranus”, la cui ristampa in cd è un evidente tarocco/bootleg.
Per valutare bene questo “Zero Tolerance” del 2004, pubblicato e prodotto dalla IRD di Franco Ratti, volevo, insomma, fare i conti con il suono che il gruppo aveva all’epoca e rivivere con i lettori l’onda lunga dell’English Blues, un tema musicalmente a me caro, trattato per esteso nella prima edizione di Rai Stereonotte (estate 1983) e poi in articoli un pò dovunque, dal mensile “Music” al “Il Manifesto”, volti, strade e luoghi rivissuti in prima persona più volte on location.
Il blues inglese dei sessanta fu un genere tutto proprio dove in comune con il blues elettrico americano ci sono solo le dodici battute ma tutto il resto, attitudine in primis, sono ben altra cosa. Basterà ascoltare John Mayall e i suoi Bluesbreaker, o ancora prima Alexis Korner e Cyril Davis per capire che la compostezza generale e l’impronta vocale prendono spunto da altri antefatti. Le chitarre di Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor, ma anche quelle di Jeff Beck e Jimmy Page dettero al genere una qualifica e divennero marchio brevettato di ciò che, appunto, prese il nome di British Blues.

1969: a Londra come nel resto del mondo, il consumo di sostanze stupefacenti è radicalmente cambiato. Partiamo da questo postulato per spiegare oggi i Killing Floor di allora e il loro sound. Nel 1969 siamo in piena era chimica, e si va giù duro, combinando il tutto con super alcolici. Converrete con me che la Woodstock Generation era sicuramente molto molto meno rilassata della generazione de l’Estate dell’Amore del 1967 e non vi era luogo intriso di musica che non vivesse le proprie vicende con tensioni più alte, vistosamente al limite della follia.
I Killing Floor debuttano con il loro primo album su una scena, quella britannica - ancora più raccolta e limitata di quella underground statunitense - che è lo specchio del periodo in corso: i Beatles si stanno sciogliendo, i Rolling Stones sono allo sbando, nascono i primi super gruppi ma è il sottosuolo quello più ricco di emotività ed estasi creativa che produce sull’onda di trip più o meno positivi. Eccoci davanti allora a una band e a un trentatre d’esordio con tempi serrati, chitarre suonate a volumi altissimi, armoniche strizzate e martirizzate, terzinati e ostinati di piano boogie che fanno da contrappunto a incastri di basso e batteria al limite dell’isterismo.
Nell’album dallo stesso nome del gruppo tutto ciò trova però una straordinaria misura, quella che si chiama “alchimia” di una band, quel qualcosa che rende un gruppo una unità speciale e che non sai mai quanto tempo durerà (il famoso modo di dire “si è persa la magia…” mai sentito?).
Bill Thorndycraft all’armonica e alla voce, Mick Clarke alle chitarre, Stuart MacDonald al basso, Bazz Smith alla batteria e Lou Martin al piano erano i cinque Killing Floor, gli stessi che riandremo a incontrare nel disco appena pubblicato, ma con 35 anni in meno!. Fra di loro, forse nemmeno se ne resero conto, Lou Martin era il vero asso nella manica e di lui, non fu certo un caso, si accorse l’irlandese Rory Gallagher che nel 1972 lo chiamò al proprio fianco per rinforzare il suo già robusto rock blues, uno dei migliori sulla scena. Gli altri non erano certo musicisti di secondo ordine – tutto gira bene qui – ma la band non aveva fatto forse i conti con gruppi come i Black Sabbath, i Free o come i Jethro Tull che giunsero sul mercato in momenti successivi ma con dalla loro una cifra originale ancora più marcata del rock blues dei nostri pur provenendo tutti dallo stesso background.
Dei Killing Floor si persero così, velocemente, le tracce nel sottobosco musicale britannico insieme ad altre grandi band dell’epoca come Ansley Dunbar Retalation, Writing On The Wall, John Dummer Blues Band, Jelly Breed, Mick Abhrams Band, generando la nascita del mercato dei dischi rari.
Nel secondo album, “Out of Uranus”; pubblicato dalla piccolissima “Major Minor” (una delle etichette più ricercate fra quelle minori inglesi) i musicisti non si muovono di molto dagli schemi del disco precedente. I riff indemoniati si sono addirittura moltiplicati secondo uno stile tipico del momento, il batterista guida la band a velocità a volte proibitive e i Killing Floor si allineano con gruppi quali Pink Fairies, High Tide, con un piede sporco di blues e boogie e l’altro di hard rock- termine che inizia a essere usato proprio allora. Purtroppo per loro mancano all’album quei pezzi forti che contano, a differenza di quelli di complessi che diventeranno presto più popolari, ad esempio i Deep Purple.
Nel secondo ed ultimo album dei Killing Floor, proprio come nel primo, tutto è a posto ma, a riascoltarlo oggi, i 33 anni trascorsi non aiutano. Si possono, certo!, cercare interpretazioni ma il gruppo, che si scioglierà nella primavera del 1972 con l’abbandono del pianista dopo circa quattro anni di attività, deve aver dato a molti anche all’epoca l’impressione di essere giunto al termine della propria avventura.
L’avvento del progressive, una musica sicuramente più nelle corde del popolo britannico che lo stile di derivazione americana a cui il gruppo faceva riferimento, e molte altre cose ancora cancellarono dalla scena, dai giornali, dai ricordi molti di quei gruppi che fra i sessanta e i settanta avevano tentato di trovare una strada originale e una soluzione personale all’evoluzione del blues in terra d’Albione.
Perdemmo in un colpo solo i valorosissimi Colosseum (nel 1972),i Patto (l’anno successivo), gli Steamhammer (ancora nel 1973). Coloro i quali rimasero in vita non ebbero vita facile (pensate ai Groundhogs di Tony mc Phee!).Qualcuno emigrò: i Savoy Brown negli Stati Uniti, i Chicken Shack scelsero la Germania . Sarebbe cominciata lentamente e inesorabilmente una perdita di stima nei confronti del British Blues. Solo alcuni di quei musicisti si salvarono riciclandosi in un genere, anch’esso di ispirazione statunitense, che avrebbe preso il nome di “Pub Rock”. La depressione prese il sopravvento e per qualcuno iniziarono anni veramente oscuri.
Uno di quei musicisti ad aver sofferto di più di questo declino deve essere stato proprio il cantante ed armonicista dei Killing Floor, Bill Thorndycraft, che nelle note di copertina del nuovo “Zero Tolerance “ fa riferimento in modo estremamente chiaro ma conciso a problemi di depressione che – uno o più – nell’entourage del gruppo sfiorarono i singoli componenti dopo lo scioglimento della formazione. Nei trentanni e più che separano il secondo disco dal terzo Bill ha svolto attività di assistente sociale.
Ecco allora uno dei casi in cui la realizzazione di un album è terapia nel vero senso della parola e in cui la musica compie quella funzione che John Lee Hooker ben stigmatizzatò con il brano “The Healer”: la guarigione, “blues is the healer…”. “Zero Tolerance“ è infatti il miglior album che i Killing Floor abbiano mai inciso e probabilmente l’album che – fossero stati più in se – avrebbero voluto realizzare trentacinque anni fa.
In “Zero tolerance” i Killing Floor del duemila non ritrovano certe soluzioni uniche degli esordi ma mantengono intatto il loro sound. Gli anni hanno stemperato certe impennate e tutto è al suo posto anche adesso. Il gruppo suona un rock blues molto convincente e si capisce sin da subito che Clarke e Thorndycraft hanno ritrovato l’ interplay di una volta. Per un disco il cui messaggio pare essere chiaro e cioè che il viaggio è appena (ri)cominciato.

Ernesto de Pascale




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