The british icon rides again on his comeback trail with a better written record, surely among the best of his long career.
Pochi se ne sono accorti, ma abbiamo seriamente rischiato di perdere Morrissey. Per anni ha cercato invano un contratto discografico che nessuno voleva dargli e troppo a lungo ha involontariamente assunto la parte della reliquia, ancora amato ma relegato ai fasti di un passato sempre più lontano. E poi l’autoesilio a Los Angeles nella casa appartenuta a Francis Scott Fitzgerald (tipica mossa alla Moz), la causa vinta da Mike Joyce sulle royalties degli Smiths e gli improbabili tour in Messico, dove pare che sia un’icona gay di prim’ordine. Ci sarebbe mancata solo un’apparizione all’Eurofestival, deliziosamente citato nel video di You Have Killed Me, e tutto sarebbe precipitato nell’autoparodia più bieca. Ma come accade nelle storie a lieto fine, la sua carriera ha improvvisamente ripreso a correre sul binario giusto. E’ arrivato il contratto con la Sanctuary, autofficina specializzata nel restauro di nomi rock d’epoca, e subito dopo You Are the Quarry, il grande ritorno, divenuto il suo più grande successo commerciale e accolto ovunque con quell’affetto che sembrava sparito. Oggi è il momento di Ringleader of the Tormentors, album molto atteso e che contiene parecchia Italia nella sua genesi, dato che per registrarlo è stato scelto il Forum Village Music di Roma, città che stando alle ultime dichiarazioni del cantante potrebbe diventarne anche la residenza definitiva. Senza dubbio si tratta di un lavoro più a fuoco, dove si sente che c’è stato tempo di curare scrittura ed arrangiamenti con un produttore come Tony Visconti, adatto per quel suono glam malinconico e rabbioso che Morrissey continua ad inseguire dai tempi degli Smiths. Ringleader è dunque classico nel miglior senso del termine, e anzi inciampa proprio nell’unico momento in cui prova ad aggiungere qualcosa di diverso, l’iniziale I Will See You in Far Off Places, costruita sopra un tappeto elettronico ed un arrangiamento orientaleggiante che suonano posticci e non lasciano alla voce lo spazio per muoversi come vorrebbe. Ma è solo un incidente di percorso che lascia spazio ad alcune fra le sue migliori canzoni di sempre. Di Dear God Please Help Me si è parlato molto per via del contributo di Ennio Morricone, uno che non fa queste cose tutti i giorni, e la canzone è infatti sorretta da archi intensi, che nella più classica tradizione morriconiana riescono a camminare su quel confine sottile che esiste fra intensità e melodramma. In the Future When All’s Well ruba il boogie ai T-Rex, niente di strano con Visconti al bancone, You Have Killed Me ruggisce con un riff di chitarra che si spera di sentire alla radio. Ma le delizie vere arrivano tutte verso la fine, On the Streets I Ran è un piccolo capolavoro di tensione drammatica, a tal punto da ricordare gli Smiths più alti, e I Just Want to See The Boy Happy è il rock’n’roll a cento ottani che per troppo tempo ha latitato dai suoi dischi. Infine, At Last I’m Born chiude il lavoro con quel senso di grandeur che di Morrissey è firma da sempre, e potrebbe esserne la definitiva trasformazione in vero crooner rock. Di certo, finché avrà in mano canzoni così, non ci saranno rischi di ricadute nel dimenticatoio.
Bernardo Cioci
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