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Intervista a Giorgio Gomelski
Di Ernesto de Pascale


Nascosto tra l’anima creativa e quella alternativa che ancora qualificano per originalità il quartiere di Chelsea a New York City, si nasconde, chiuso in un bunker di tre piani, circondato da decine e decine di master video che racchiudono la storia orale del rock a New York, uno degli ultimi grandi personaggi dell’industria discografica dei primi sessanta.
Colui che vi vogliamo descrivere in pochi tratti somatici e fisiognomici è un lucido settantatreenne - padre georgiano, madre monegasca, tutrice italiana - che con il fare regale di un Rè spodestato mi racconterà per le prossime tre ore con dovizia di particolari la storia del rock che lui ha contribuito a scrivere, accompagnandola con l’autorevolezza di colui il quale l’ ha vissuta sul campo.
Giorgio Gomlesky è un nome passato davanti ai nostri occhi centinaia di volte, abbinato agli esordi degli Stones, degli Yardbirds, alle copertine di “Extrapolation” del giovanissimo John McLaughlin, dello Spontaneous Combustion Ensemble, dei Gong, degli straordinari Magma, dei Material, di Jeff Buckley, ma la sua è una storia rimasta sempre ai limiti dell’industria.
I motivi di questa scelta sono chiari fin da subito; la sua non appartenenza a nessuna scuola di pensiero, una visione chiara affrancata da quella di chiunque altro lo fa immediatamente assurgere a quella ristretta cerchia di persone che sta velocemente scomparendo, a quella degli Ertgun, dei Chess, dei Grossman, degli Epstein, uno dei suoi migliori amici di sempre, scoprirò nel corso del nostro incontro.
La storia di Giorgio comincia però molto prima della celebre residenza presso il Crawdaddy di Richmond dei sei Stones (una precisazione, per tutto il tempo del nostro incontro gli Stones sono sempre descritti come sei, Ian Stewart al piano considerato quindi al pari degli altri cinque “ufficiali”!) e, non casualmente, a cavallo fra i confini montani di Italia e Svizzera.
“La mia adolescenza la ho trascorsa fra Lugano e il Lago di Como, con amicizie come la famiglia Peroni (“Che fine hanno fatto“ mi chiederà più volte senza sapere della sua scomparsa), incrementando i miei primi veri amori musicali, il jazz e il blues delle origini. Da lì nel 1958, attraverso la Francia, risalii al nord per raggiungere l’Inghilterra con la precisa idea di realizzare un documentario sul jazz britannico senza rendermi conto delle difficoltà tecniche. Erano anni in cui - continua fra una sigaretta e l’altra - la BBC neanche immaginava che un progetto del genere poteva avere un pubblico potenziale perché i fan vivevano le loro passioni come una specie di carboneria. Questa avventura mi introdusse allo skiffle di Lonnie Donegan - il blues degli inglesi! - e, da lì, a quel ristrettissimo giro di bluesmen locali come Cyril Davis e Alexis Korner, entrambi sotto l’ala protettrice di Chris Barber. In quel periodo fra l’altro collaboravo con una rivista fiorentina di Jazz, “Jazz di Ieri e di Oggi“ con dei reportage sui concerti inglesi dell’epoca (la rivista durò solo due stagioni) mantenendo perciò vivo il mio rapporto con l’Italia”.
Proprio l’Italia fornirà, incredibile a dirsi, a Giorgio i mezzi per avventurarsi nel frastagliato mondo dei gestori di locali notturni londinesi, “ una piccola e pericolosissima mafia“. Continua Gomeslky: ”Londra non era come oggi. Alle 22.30 era coprifuoco totale se non nella zona di SoHo, area totalmente ad appannaggio di G.I americani, dove mi fu subito spiegato che non sarei potuto approdare con il mio progetto. Il progetto? Semplice!: una caffetteria con la prima macchina da caffè Faema sulla piazza britannica. Quell’estate, inoltre, ero stato in Toscana, alla Piaggio di Pontedera, ed avevo acquistato un Vespa. Pensate! tornai a Londra in Vespa e iniziai a importarle direttamente dalla fabbrica. Ecco come partì l’avventura dei Mod londinesi: in un baretto tre metri per tre, con della bella musica scelta da me, una Vespa fuori dalla porta e a una Faema italiana che faceva un caffé che è rimasto nella storia di Londra: senza di voi non sarei andato da nessuna parte. A Richmond, non potendo aprire un locale nel centro di Londra, fondai il Crawdaddy - Eric Clapton era uno dei nostri dj! - un locale che negli anni divenne un club itinerante e che quando terminò la sua attività, alcuni anni dopo, contava più di ventimila iscritti, tutti potenziali acquirenti in un epoca in cui ancora di vendeva e si comprava la musica!”.
Il rapporto con gli Stones si solidificò grazie all’amore di entrambe le parti per il blues.
“Senza il blues nessuno di noi sarebbe qui - mi dice perentorio - soprattutto dopo che hai vissuto spalla a spalla per sei mesi con gente del calibro di Sonny Boy Williamson. Williamson si fermò a casa mia per un bel po’ dopo il primo American Folk Blues Festival di Lippmann e Rau che portai in Gran Bretagna - continua divertito Giorgio - ma non riusciva a non fare lo “schiavo“. Cucinava, dava il cencio, puliva casa, lavava e stirava .anche piuttosto bene, e andava a fare la spesa. Pareva divertirsi molto. Tentai di fermare la sue abitudini che mi imbarazzavano non poco ma non ci riuscii. Si fermava solo per dei lunghi racconti, forse fittizi, che lasciavano sognare a bocca aperta Eric (Clapton) e Brian (Jones), i due più assidui frequentatori e scrocconi di cene e pranzi che abbia mai conosciuto”. “E Andrew Loog Oldham?“ gli chiedo. “Andrew era solo un abile manipolatore che aveva avuto la fortuna di lavorare con Brian (Epstein) abbastanza da farsi un nome“.
Ma la storia va velocemente avanti.
“ I Beatles li conoscevo dai tempi di Amburgo. Avevo girato un paio di anni con con Roland Kirk (portandolo anche in Italia con Tete Monteliu al piano) e altri e con i bluesmen. Ad Amburgo conobbi questi ragazzi e la nostra amicizia continuò a lungo. Quando vennero a Londra per la loro prima registrazione televisiva agli studi BBC di Twickenham non esitarono a fermarsi al club a ballare e divertirsi!”.
Alle porte batteva però una vera svolta, non solo musicale.
“ Gli Yardbirds mi colpirono fin da subito. Avevano sviluppato uno stile blues che nessuno altro aveva, si chiamava Rave Up. Loro salivano su su fino al parossismo più totale, mettendo la più pura isteria addosso al pubblico per poi scendere giù giù fino ai dei pianissimo carichi di tensione e lunghissimi. Si erano fatti un pubblico così, con le loro semplici forze, pazzeschi, a detta di tutti!. Non male per un gruppo guidato da un cantante armonicista asmatico (Keith Relf)!“
Relf, mi dirà poi Gomelsky, aveva imparato bene tutti i trucchi dal grande Little Walter che rimase per tutta la sua breve vita il suo musicista preferito.
Ma è il nome di Eric Clapton che evoca i brividi non solo nell’intervistatore ma anche in mr Gomelsky che assume un tono più mesto, quasi melanconico :
“ Certo che volevamo tutti il successo, chi ha mai detto il contrario! - esplode lui quando cerco di tirare le fila della famosa scissione fra Slowhand ed il gruppo - le storie sul rigore di Eric sono tutte false. La situazione era davvero un’altra: Clapton non credeva nel potenziale degli yardbirds, pensava che il gruppo non ce l’avrebbe potuta fare. Ma io gli dimostrai il contrario e i ragazzi, soprattutto Chris (Dreja) e Jim (McCarthy) si intestardirono nel voler proseguire in direzioni sempre più sperimentali”. E aggiunge: “Quanti hanno riascoltato con attenzione gli Yardbirds con Jeff Beck o le cose registrate con Jimmy Page ? Oggi purtroppo - dice il mecenate - non c’è tempo per niente ma il gruppo segnò la strada a gente americana come The Standells, The Seeds, 13th Floor Elevator, Blues Magoos e molti altri”.
Per raggiungere il successo internazionale Gomelsky fu così lungimirante da stipulare patti separati con ogni singolo mercato. “ Gli italiani della Ricordi, Micocci in special modo, era gente che mi stava molto simpatica e ci sapeva fare, sapeva vivere. Fu con loro che mettemmo piedi l’esibizione di San Remo, “Questa Volta” e “Paff Bum”. Il vero senso della nostra presenza era ricreare l’atmosfera del Crawdaddy, portare un po’ di Swinging London sulla riviera dei fiori e penso che ci riuscimmo!”.
Gli anni sessanta furono per Giorgio Gomelsky un decennio intensissimo che terminarono con un netto distacco dal sistemo. “Avevo idee straordinarie, volevo portare un revue inglese in giro per l’America come la Stax aveva fatto in Europa ma Brian Jones mise il veto mentre non si rendeva conto che il suo contratto con gli Stones qui in America era in mano a degli sciacalli e mentre a Memphis avevo avuto il massimo supporto dai grandi artisti neri”. E continua “L’Europa mi stava stretta; avevo contati con chiunque: dai club di st Moritz a Sant Margherita Ligure, da Crocetta al Piper fino a Rimini in Italia e avevo imposto Brian e Julie che barcollava fra la classe di Terence Stamp e il tono bohemien di Keith Tippett”. Poi si ferma un attimo a pensare bene, accende un’altra sigaretta e conclude: ”Quando vidi Peter Grant, un goffo manager di wrestling, un portaborse alla corte di Don Arden, fare successo con i Led Zeppelin e sentii parlare di super gruppi, capii che il mio posto non era più lì. Chiusi la mia Paradigm - una società con cui avevo fatto di tutto, dai Doors in Europa alle copertine dei Beatles - mandai a casa i miei 35 dipendenti e partii per altri lidi. il 31 dicembre 1969 lasciai definitivamente la Gran Bretagna per non ritornarci più. Gli avvocati avevano alimentato la vanità degli artisti e quello non era ciò che chiedevo alla musica“.
Quella dei settanta è però per Gomelsky un’altra storia, un altro decennio, che seppe affrontare con il coraggio di ripartire che solo i grandi conoscono.
“Partii alla volta della Francia con la mia nuova fidanzata, deciso a ripartire da capo. La musica la consideravo un incidente, un piacevole incidente di percorso ma volevo tornare alla produzione visiva. Invece - mi dice con aria sorniona - anche questa volta la musica, la buona musica giocò in contropiede”.
Sull’onda dei suoi progetti con i primi Gong dell’amico David Allen (quelli che si erano concretizzati nei dischi della BYG) e del suo amore passionale per il jazz, Gomelsky era un personaggio di spicco della rive gauche musicale tardi anni sessanta. I giornalisti si misero sulle sue tracce non appena seppero che Giorgio aveva scelto la Francia come nuova patria.
“Ricordo ancora che era la prima intervista che rilasciavo.Era per la rivista Rock & Folk. Il giornalista alla fine, prima di salutarmi, mi allungò una cassetta e mi disse di ascoltarla con attenzione. Rimasi colpito da ciò che ascoltai e lui gli dissi che se il gruppo si sarebbe dimostrato serio, molto serio, avremmo potuto parlarne. Cominciarono ad arrivarmi telefonate tutti i giorni, poi due, poi tre, poi quattro volte al giorno, dai ragazzi della band che volevano assicurarmi della loro serietà. Nacque un rapporto che sarebbe andato avanti per otto anni con risultati di cui sono ancora orgoglioso per un gruppo che cantava in una lingua inventata, il Kobaiano. I Magma di Christian Vander sono il fiore all’occhiello della mia storia musicale. Una formazione che è riuscita a vivere nella memoria di molti, a rinascere con orgoglio nel duemila, a creare una scuola che licenziava nuovi membri ogni anno, al punto tale che quando partii per New York City nel 1978 i membri del gruppo erano più di settanta. E tutto questo con una musica assolutamente unica e di certo non facile. Altro che fascismo come diceva qualcuno! Vander è solo un marziano in mezzo a noi! Quando sciogliemmo l‘avventura suonavamo sessanta/settanta date l‘anno in palasport di cinquemila, seimila persona, i dischi vendevano fino a duecentomila copie. Vivevamo tutti bene senza essere nababbi. Niente male!: Il mio compito era stato raggiunto. Decisi perciò così di emigrare nuovamente per New York City, la città che da sempre volevo conquistare con la musica senza esserci mai riuscito”.
A New York City Gomelsky si insedia in una bassa palazzina di tre piani, persa fra altre case poco più alte, anche loro vecchie di numerosi decenni, a Chelsea. Lì dove lo sono andato a trovare. La sua casa di oggi, dal 1978 ad oggi è stato un club, uno studio di registrazione, un luogo di appartenenza e di condivisione. Entrate e capirete.
“Arrivo e trovo una scena pazzesca!: Resto colpito dalla vitalità di un giovane con una visione, Bill Laswell. Faccio nascere la Zu Nation e anche questa volta comincio a licenziare il materiale nazione per nazione (in Italia i dischi vennero licenziati alla Base record, l‘etichetta legata al distributore Nannucci, di Bologna, già licenziatari in quegli anni della Esp e della Factory dei Joy Division). Va tutto bene fino al giorno in cui la polizia blocca una nostra festa/performance, ZU Manifestival, che doveva durare originariamente 24 ore. Diciamo che mi rompo le scatole di un po’ tutto dopo un abortito tentativo losangelino di mettere in piedi con la mia Utopia Record (sovvenzionata dalla RCA americana) una avventura simile a quella newyorchese sulla West Coast e così passai presto ad altro!”.
Come abbia passato gli ultimi venticinque anni Giorgio Gomelsky non mi è dato sapere. Mi giro, osservo, mi guardo intorno come se la mia fosse una visita fiscale per capire il “grado” di agiatezza del sig.re Giorgio ma qualcosa mi sfugge. Le uniche informazioni di cui sono in possesso è che Jeff Buckley aveva nei suoi confronti un “debito di riconoscenza infinita” (sue parole). Ma Gomelsky uscì di scena prima che il nome di Jeff si imponesse sulla scena nazionale e poi internazionale.
E conclude con una sorta di testamento spirituale: “ Ho visto gli avvocati della musica rivoluzionare questo business. Quando sono arrivato a New York City la prima volta nei primi anni sessanta mi sono presentato in una casa discografica con i contratti inglesi sotto braccio, due pagine. Mi risero in faccia e mi buttarono sul tavolo i loro contratti, quelli americani: sessanta pagine. Per tenere stretti a se gli artisti - mi spiega - un avvocato non ha carte da giocare se non istigare nell’animo di un’artista il più alto livello di vanità. Gli avvocati, quelli che hanno preso il posto dei manager di una volta, non hanno la capacità di interloquire con gli artisti come faceva la mia generazione, Brian Epstein, Albert Grossman, molti altri ve ne erano. La disfatta della musica è cominciata da quella casta, molto molto tempo fa. La fine era identificabile”.
E continua: ”Questa città è cambiata, questo paese è cambiato. Bush ha fatto danni irreparabili ed è stato solo l’ultimo. Il cervello delle persone è stato mangiato. Oggi si agisce su target inimmaginabili, dai tre ai sei anni!!!”, dice indignato. “E perché allora Giorgio vive ancora a New York City?“, gli domando. “E dove potrei andare”, mi risponde lui dopo averci pensato su un bel po’“ forse in Messico?, ad avvistare gli UFO ? Il Messico è come l’America degli anni cinquanta, forse si potrebbe ricominciare da capo... ma non so, non so davvero”.
“Di quel che non abbiamo parlato ne riparleremo un’altra volta, se vorrai”, mi dice infine, dopo quasi 3 ore insieme, mentre si immerge nuovamente nel suo nuovo progetto, la documentazione orale in video, da parte dei suoi principali protagonisti, del rock a New York City da riproporre via internet. Un progetto speciale per un uomo speciale. Ci lasciamo con la promessa di rimanere in contatto. Da personaggi del genere c’ancora tanto da imparare.


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