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La strada, il boogie-woogie e le prospettive secondo Gene Taylor
di Massimo Baraldi


Un ragazzo cresciuto in fretta, Gene Taylor. Documenti falsi in tasca, le mani strette al volante e gli occhi fissi sulla strada, sulla sua auto si avvicendarono Pee-Wee Crayton, T-Bone Walker, Lowell Fulson e tutti quelli che con Los Angeles e il blues ebbero qualcosa a che fare. Gente poco incline alle domande e con le proprie cose a cui pensare... su quanti anni avesse davvero, nessuno si mise mai a indagare. Conosceva i tasti di un pianoforte e sapeva dove andare, tanto poteva pure bastare. Furono loro la sua famiglia, i suoi Maestri, i suoi amici. La vita può farti diventare un uomo ben prima del tempo, quando ci si mette.

Nel 1974 Gene incontrò Bob "The Bear" Hite, sul boogie-woogie sapeva tutto quello che c'era da sapere e per quasi tre anni se ne andò in giro con lui e i Canned Heat. Vennero poi Ronnie Hawkins, James Harman, Doug Sahm, Charlie Musselwhite, John Hammond: era un uomo, ormai, e non aveva più alcun bisogno di mentire per suonare.

Dopo le scorribande rock 'n' roll nei Blasters con i fratelli Alvin degni compari e una manciata di lustri spesi nei Fabulous Thunderbirds tra i blues di Kim Wilson, ora Gene si è lasciato alla spalle Austin per sistemarsi in Belgio e riprendere la strada dell'avventura.

Trovarmelo al fianco è una grande emozione, sissignore. E stavolta tocca a lui raccontare... al volante ci sono io, ad ascoltare.

MB: Dai primi tour di quartiere a Norwalk, California, all’età di undici anni a quelli con T-Bone Walker e Big Joe Turner appena compiuti i sedici… non male, per un ragazzino bianco! Che mi dici di quei giorni?

GT: Bè, se mi sono messo a suonare è perché tutti i miei vicini lo facevano. Avevo otto o nove anni quando cominciai… qualcuno aveva lì una batteria e su quella presi a esercitarmi. Era il pianoforte ad affascinarmi, però, quindi mi feci mostrare un paio di cose da un tale e pian piano imparai il resto. 

Jim Payne, un mio amico, aveva una band di famiglia: lui si occupava di chitarra e basso, il padre della chitarra, la madre cantava e suonava il piano… mi aggregai anch’io, che cantavo barcamenandomi tra chitarra e piano, e nei fine settimana ce ne andavamo in giro a suonare nei party privati, presso associazioni e cose del genere.

A sedici anni passavo tutto il mio tempo seduto al pianoforte a suonare il blues. Non avevo già più i genitori, loro erano morti entrambi. Avevo la mia patente, quindi potevo guidare… e portavo dei documenti falsi sempre con me: nel caso a qualcuno fossero sorti dei dubbi riguardo la mia età, io li avevo pronti. (ride) Non mi sono mai serviti, però… sembravo molto più vecchio di quanto in realtà non fossi, perché ho cominciato a perdere i capelli quando avevo appena quattordici anni! (ride) Come del resto accadde a mio padre, prima di me. 

Conoscevo un certo Lee Allen e come ebbi la patente andai a vedermi Big Joe Turner, perché lui era solito cantare con il musicista che più mi ha ispirato, Pee Johnson. Non ricordo il nome del club… non era molto grande, ma c’erano tutti quanti quella sera. T-Bone Walker non suonava, era lì solo per il concerto. Big Joe cantava con una piccola band e quelli mi piazzarono al piano, ma fu perché tutti quanti loro erano convinti che fossi molto più vecchio. Me la cavai, in fondo conoscevo ogni singolo pezzo del suo repertorio! Il mio numero di telefono ce l’avevano, dissi loro di chiamarmi se fosse saltato fuori qualche lavoretto per me in zona. All’epoca non sono mai andato davvero sulla strada, se non con Pee-Wee Crayton… ero già sulla ventina quando mi ci portò per la prima volta. A conoscere la mia vera età erano giusto lui, T-Bone, Lee Allen e nessun altro. Ma credo non importasse a nessuno, fintanto che guidavo. Avevo un paio di cose a mio favore: l’auto e la disponibilità a lavorare gratis pur di imparare. Suonavo abbastanza da reggere la mia parte e fare una discreta figura sul palco, ma il mio lavoro principale restava comunque quello di scarrozzare musicisti in giro. (ride) Io, in cambio, ho avuto l’opportunità di imparare dai migliori. A volte mi dicevano di togliermi di mezzo, se un pezzo era troppo difficile… mi facevo da parte e Rudy Johnson, un bassista, mi spiegava cosa fare. Io prendevo nota di tutto e studiavo. Tutto questo accadde nell’area di Los Angeles. Suonai molto con Pee-Wee Crayton, Lowell Fulson e Big Joe, ma funzionava che quando avevano un ingaggio cercavano di reclutare i migliori. Se poi non ci riuscivano, bè, sapevano di poter contare su di me… ero a buon mercato, perché tutto ciò che desideravo era suonare. E in più potevo portarli in giro. (ride) Devo dire che Pee-Wee mi pagava abbastanza bene, comunque.

MB: Sei stato per alcuni anni coi Canned Heat! Che mi dici di quell’esperienza? E com’era Bob “The Bear” Hite? Non sembrava il tipo con cui qualcuno potesse aver voglia di restare intrappolato in un ascensore…

GT: Bob era davvero un gran bravo tipo… Bob è stato uno dei migliori amici che io abbia mai avuto. Lui era il fratellone di tutti quanti. Conobbi Bob Hite per via della sua collezione di dischi e di suo fratello Richard, che entrò nei Canned Heat nel 1972, al basso. Alla fine del 1974 quando Ed Beyer e James Shane, tastiere il primo e chitarra ritmica il secondo, decisero di lasciare la band, invitarono me e Chris Morgan a sostituirli. La ragione è che Richard Hite era già dentro, gli venne spontaneo scegliere me e il suo amico Chris.

Ero nella band da circa tre settimane, quando Henry Vestine, ubriaco, fu coinvolto in un gran brutto incidente d’auto… un suo amico si fece male e lui dovette andarsene in galera per un po’. E così andò a finire che suonai anche la chitarra, in quel periodo. Restai con loro dal dicembre 1974 al giugno 1976 e… ci siamo divertiti. Eravamo continuamente in viaggio, i Canned Heat suonavano sempre!

MB: Dicono che nessuna band si sia mai fatta altrettanti festival di motociclisti…
GT: Eccome… di quelli ne abbiamo girati davvero un sacco!

MB: Quando penso ai Canned Heat, per il loro impegno sociale, ricordo che negli anni ’60 abbiamo visto un’intera generazione insorgere contro il Vietnam; ora abbiamo persone che combattono in tutto il pianeta dicendo che è per sconfiggere il terrorismo, e così solo pochi ci badano. È curioso, no? Leonard Cohen cantava, in una canzone: “C’è una guerra tra quelli che dicono che c’è una guerra e quelli che dicono che non c’è”.

GT: Sì, ho sempre cercato di stare alla larga dalla politica solo perché personalmente… questo è piuttosto difficile da spiegare, diciamo che mi importa ma non mi importa. Sopravviverò, questo è certo. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ci sono cose come la musica e lo sport che uniscono le persone in qualcosa di positivo come le olimpiadi e altre, come l’avidità di potere e denaro, che le separano. Si ha paura di chi non si conosce, se poi quel qualcuno proviene da una cultura diversa dalla tua, bè, le cose vanno ancora peggio. Ma come pensi di poter imparare ad accettare gli altri se non fai alcuno sforzo per comprenderne il punto di vista? Non c’è bisogno che tu sia d’accordo con loro, tutto ciò che devi fare è accettare che vedano le cose in modo diverso da te e dire: “Va bene. Dal momento che siamo insieme in questo mondo, cerchiamo un compromesso, una terra sulla quale stare entrambi. Forse qui o lì non funzionerebbe, ma altrove sì. Andiamoci, allora!”. Purtroppo ci sono persone che, per ragioni loro, non vogliono questo. È una cosa che fa parte del mondo, credo che sia sempre stato così. Se le persone comuni potessero gestirsi da sole troverebbero un modo per mettersi d’accordo, non avrebbero alternativa. Ma ce ne sono altre che devono assolutamente aver potere sui propri simili, e loro non possono certo permetterlo. Che assuma la forma di religione, di politica, di multinazionali che controllano l’energia, il cibo, le medicine e qualunque altra cosa di cui tu abbia necessità… bè, non fa differenza: hanno il potere, e ce l’hanno su di te.

MB: Nel 1981 hai rivisto un paio di amici di gioventù, Phil e Dave Alvin! Ray Manzarek nel 1980 produsse “Los Angeles” degli X e, se quelli furono gli anni dell’ondata punk, coi Blasters fu anche una grande stagione per il rock ‘n’ roll più selvaggio.

GT: Era il tempi giusto perché succedesse qualcosa. Io ero nella musica da sempre, Bill Bateman e John Bazz pure. Phil suonicchiava, ma era un insegnante di matematica, Dave Alvin era uno scrittore che se la cavava con flauto e sax… ma alla fine gli toccò la chitarra. Nel nostro giro c’erano diversi bravi chitarristi, ed è da loro che imparò. Gary Masi era senz’altro uno dei migliori. Lo vedo tuttora, sai? Oggi lavora alla Coca-Cola, ma non ha smesso di suonare. Avevo un ingaggio verso la fine degli anni ’70, ogni domenica sera, in un posto chiamato “Sundance Saloon” giù a Long Beach, California… quando decisi di trasferirmi in Canada per suonare col mio amico Morgan Davis è a Phil Alvin e James Harman che cedetti il posto. James era concentrato sul blues, Phil era orientato verso il country, il rockabilly e cose del genere. In poco tempo Bateman diventò il batterista e avevano anche un bassista, Mike Kennedy, ma fu assassinato. John Bazz era un batterista, ma non bravo quanto Bateman… così fu lui a occuparsi del basso. Gary Masi non poteva suonare la chitarra per via di impegni suoi e allora a farsi avanti fu Dave Alvin. Fu l’armonicista Frank Furillo a mettere insieme la formazione originale dei Blasters, per suonare ai matrimoni, e a impuntarsi perché fosse proprio Dave il chitarrista. Io giravo per il Canada con Ronnie Hawkins mentre tutto questo succedeva, ma quando la band fu pronta li raggiunsi. Feci alcune date con James Harman, coi Blasters le cose sembravano funzionare e io restai.

MB: Taj Mahal disse che se hai intenzione di metter su una band dovresti andarti a cercare un buon pianista, tanto per cominciare. Sei d’accordo?

GT: Dipende dal tipo di band che hai in testa. È buffo, ma oggi nel blues chitarre e armoniche hanno soppiantato il piano e il sax dei vecchi tempi. C’è da dire che con un piano, da solo, puoi suonare i bassi, gli alti, tenere il ritmo e fare assoli… un sacco di cose, e tutte contemporaneamente. Credo che avere un buon pianista possa fare la differenza in una band, che la collochi un gradino sopra le altre. O, quantomeno, mi piace pensarlo. (ride)

MB: La tua generazione di musicisti ha avuto l’opportunità di imparare direttamente dai Pionieri del blues e di vedere la storia cambiare: molti di loro sono stati maltrattati e hanno storie tragiche da raccontare. Tu hai suonato con Louisiana Red, per esempio, e suo padre è stato assassinato dal Ku Klux Klan. Quei tempi sono andati, ora, ma lo stesso mi chiedo in che modo quella gente si rapporti ai bluesmen bianchi.

GT: C’è un punto nella vita di ogni persona… pensa a quelli che hanno vissuto la seconda guerra mondiale, quelli della generazione di tuo nonno, probabilmente, c’è un punto in cui sei letteralmente pazzo furioso per quello che ti accade intorno. Poi ne vieni fuori, scopri di essere vivo e cominci a chiederti se sia il caso di rinunciare a una vita felice per continuare a sentirti in quel modo fino alla fine dei tuoi giorni. O se sia piuttosto il caso di dare una svolta e dire “Sono sopravvissuto ai miei guai e non ho alcuna intenzione di lasciarmi schiacciare da essi!”. Questo vale ancora oggi. Pensi di avere un problema? Guardati intorno e vedrai persone che davvero sanno cosa sono i problemi. Nel mondo c’è gente che si sveglia al mattino senza sapere se quel giorno riuscirà a mettere del cibo sotto i denti… ma, alla fine, qualcosa trova e sopravvive. È brava gente, del tipo che non è disposta a lasciarsi abbattere dalla vita. Devi essere forte, se vuoi farcela. Louisiana Red, Muddy Waters, Howlin’ Wolf… molti di loro se ne sono andati e questo mondo non è stato tenero con loro, ma certo non lo è mai stato con nessuno. Tutti abbiamo subito qualcosa d’ingiusto, ma trova un modo di passarci sopra oppure non riuscirai a fare granché della tua vita. Tutto quello che gli uomini e le donne del blues avevano era lo spirito, e se lo sono tenuto ben stretto. Era abbastanza forte da riuscire a dire: “Puoi uccidermi, ma non fermarmi. E se non lo fai, sopravviverò.”. Questo è l’unico modo in cui riesco a vederla. Qualcuno di quella generazione può raccontarti una storia particolarmente brutta, ma non è per farti sentire in colpa. Se lo fa è perché tu possa capire come giravano le cose, per renderti consapevole di quello che la vita ti può riservare. Ascoltali, calati nei loro panni: non potrai fare a meno di chiederti come ne saresti venuto fuori, se fosse toccato a te. Vogliono che tu impari, e imparare e ciò che dobbiamo fare, sempre. Penso che il messaggio dei vecchi bluesmen sia: “Guardami. Se posso sopravvivere io, puoi farlo anche tu”. Attenzione, però, non si tratta semplicemente di tirare avanti… prendi uno come Muddy Waters o B.B. King: loro sono diventati dei Re, hanno governato il mondo del blues! Nessuno è stato migliore di Muddy Waters eppure, sapendo chi era e da dove veniva, su di lui nessuno avrebbe mai scommesso! Aveva una direzione, nella sua testa come nel cuore, e non si è lasciato fermare. Noi lo ricordiamo ancora oggi, ma lo stesso non vale per tutta la gente che lo ha maltrattato. Esiste una prospettiva nelle cose. Prospettive e punti di vista, la questione è tutta lì.

Vai sulla cima di quel palazzo e guarda giù: vedendomi penserai che non potrei trovarmi più in basso di dove sono ora… ma se io salissi su quell’altro là in fondo, potrei dire la stessa cosa di te.

MB: Sei tornato al circuito dei clubs dopo un sacco di anni passati sulla strada con The Blasters, The Fabulous Thunderbirds, Ronnie Hawkins e tanti altri. Eric Burdon, spalleggiato da Pete York alla batteria e Christoph Steinbach al piano, ha fatto lo stesso con i suoi Blues Knights nel 2005. Ti mancavano i vecchi tempi del boogie?

GT: Eric Burdon è uno dei migliori cantanti blues al mondo. Da ragazzino lo ascoltavo con gli Animals e quando giravo i festivals coi Fabulous Thunderbirds capitò anche di dividere lo stesso palco con lui. Aynsley Dunbar era il suo batterista, all’epoca. Quanto agli spazi… non è il tipo di cosa che mi interessa: una sera sono stato all’Hollywood Bowl, quella dopo in un piccolo bar: tu dammi dei buoni musicisti con cui suonare e per me va sempre bene! Amo i club, naturalmente, così come le grandi sale, ma non è questo a far la differenza. Non mi importa dove mi trovo, fintanto che mi lasciano suonare. Mi basta questo per essere felice.

MB: E che mi dici della scena americana oggi, per questo tipo di musica?

GT: Oh, è come in qualunque altro posto. Nessuno diventerà mai ricco suonando il blues! B.B. King è riuscito a far meglio di qualunque altro bluesman, ma non è comunque una popstar. Suoni questa musica perché la ami… e devi amarla e continuare a farlo almeno sino a quando c’è qualcuno disposto ad ascoltarla.

MB: Ora sei in tour con la Family Style Band di Marco e Franco Limido. Sono conosciuti per essere tra i migliori e più rappresentativi bluesmen italiani, ben rispettati in tutta Europa. Si tratta di una collaborazione occasionale o è il caso di restare sintonizzati in attesa di qualcos’altro?

GT: È difficile dirlo, staremo a vedere. Penso che sì, qualcos’altro faremo… sono uno a cui piace collaborare con le persone. Posso dire che sono in gamba, ho ascoltato il loro cd e in giro per l’Europa me ne hanno detto un gran bene. E io non vedo l’ora di suonarci insieme!

Cantù, 7 marzo 2008 

Massimo Baraldi

Foto © Massimo Baraldi




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