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SPECIAL
WattStax Jam
Los Angeles Memorial Coliseum è uno dei più imponenti complessi sportivi open air d’’America. Costruito nel 1921 e sede delle Olimpiadi del 1932 e poi del 1984, con la sua complicata struttura ad anelli di cemento armato concentrici su cui sono costruite i piloni che reggono le gradinate, può ospitare più di centomila spettatori e molte altre migliaia nei suoi meandri di corridoi, scale, sale, verande nascoste e palestre. Quando nell’Agosto 1972 divenne, a sua insaputa, la scena del più imponente raduno musicale a cui il popolo nero americano avesse mai partecipato non sapeva di tremare per la sua incolumità e stabilità.
La Woodstock dei Neri, come venne fin da subito chiamata WattStax era nata, negli intenti degli organizzatori, per sostenere una campagna a favore del quartiere di Watt, il luogo infame che solo sei anni prima era stato devastato da scontri rivelatisi poi inutili e infruttuosi per entrambe le parti.
L’America del 1972 era però altra cosa da quella del 1966: erano scomparsi Martin Luther King, Otis Redding,Robert Kennedy. C’era stata la disfatta del Vietnam, Nixon, una prima recessione economica energetica alle porte con il petrolio pronot ad aumentare del 400 % nei primi mesi del‘anno successivo 1973, la Woodstock Nation, un durissimo simposio dei dj neri d’America nel 1969 a Chicago che aveva delineato un quadro sconsolante per la musica black e un organigramma di ripresa estremamente sfaccettato e al limite del legale e molto altro. Il sogno di We Can Change The World era svanito nel nulla sulle note di Jimi Hendrix, l’unico nero insieme a Sly Stone e James Brown in grado di poter guidare con la musica quel popolo ( quasi ) convinto ad unirsi ai giovani dei Campus. Ma Four Dead In Ohio avevano mandato in fumo la coalizione fra i giovani bianchi e i giovani neri. Cosa restava allora a quel popolo? Restava intatta la musica, la propria musica in una America che stava cambiando drasticamente.
I bianchi però avevano fatto loro il suono della gente di colore troppo velocemente proprio mentre le nuove generazioni emigravano per la quarta volta in un secolo verso altre città: il blues nero si era diluito - ma anche ingigantito - nella musica di tanti eroi bianchi, prevalentemente chitarristi, da Mike Bloomfield a Johnny Winter, facendo poco a poco scomparire il contributo vero, radicale, dei grandi musicisti di colore di solo dieci, quindici anni prima. BB King si era dovuto far costruire una etichetta addosso (la Bluesway) per continuare a vivere bene mentre gli artisti, come quelli della Chess records erano in balia delle onde. Muddy Waters, John Lee Hooker e i più giovani Buddy Guy & Junior Wells, si alternavano tra un marchio e l’altro. Il Soul della Motown era emigrato ad ovest, a Los Angeles guarda caso, per permettere al presidente Berry Gordy jr, al suo braccio destro Smokey Robinson e alla sua giovane amante, la prediletta Diana Ross, di entrare nel mondo della celluloide. Così facendo Gordy jr aveva lasciato, forse inconsciamente, i due veri giganti di quel marchio, Marvin Gaye e Stevie Wonder, liberi di comporre e realizzare i loro dischi migliori, quelli più completi per coscienza e contenuti civili mentre il resto della Motown basculava paurosamente. Cosa restava allora di coagulante nel mercato musicale per ridare ai giovani la fiducia nella loro pelle, nel loro ceppo, nel nome del I AM SOMEBODY di kingiana memoria.
Isaac-Hayes
Anche la Stax record di Memphis era cambiata come tutte le etichette americane di quei giorni, così come era cambiata Memphis, e si apprestava a navigare il grande mare di quella che vent’anni dopo si sarebbe chiamata globalizzazione. Però proprio la Stax con i suoi cambiamenti aveva mantenuto intatto il senso di grande famiglia che caratterizzava il gruppo base di lavoro, un manipolo di artisti ancora unito. Certo! Al Bell nuovo presidente era, o forse voleva solo essere, il Barry Gordy jr del Sud ma non gli se ne poteva fare certo una colpa. La Atlantic records, per anni suo distributore e sostenitore finanziario, vedendo nel grande mercato del rock il futuro del proprio nome si era infatti lasciata dietro la bella e intensa esperienza sudista per impacchettare i suoi contratti e offrirli alla Warner Brothers americana. Bell, da vero uomo del Sud, pur obbligato a cambiare e a evolversi, l’etichetta aveva appena aperto un uffcio a West Hollywood per promuoversi meglio sulla costa Ovest, aveva tenuto fede a certi cardini che sorreggevano l’etichetta Stax, come il marchio The Gospel Truth, voluto anni prima da Rufus Thomas, il veterano, quello con il fiuto più fine. The Gospel Truth era un brand speciale in casa Stax chè oltre a raccogliere alcuni dei migliori gruppi Gospel più radicali d’America, era diventato una sorta di vivaio per l‘etichetta. Il Reverendo Jackson, all’epoca figura rampante della scena black più impegnata, aveva pubblicato alcuni dei suoi migliori sermoni proprio per la Gospel Truth.
I neri, e non solo quelli del Sud, apprezzavano quest’essere fedeli a una linea antica. Nonostante che la musica della Stax fosse cambiata già da un po’ e Isaac Hayes si fosse auto incoronato Messia Nera, nessuno calcava la mano sul nuovo percorso. Nessuno, almeno fino a quando Rufus Thomas restava a capo della baracca artistica, garante di tradizione in movimento.
Un esempio ? : Don Cornelius, il dj che proprio nel 1972 esplode con il programma tv Soul Train, non lesinava spazi alla Stax nonostante egemonia della Motown e dei suoi potenti promoter e continuava ad avere una predilezione per l’aspetto “formativo” del gruppo di lavoro memphisiano. La festa di Los Angeles si preannunciava perciò come un importante momento di affermazione per quel Soul del Sud che agli occhi di molti poteva ormai parere vecchio ed obsoleto.
WattStax è stato un evento importante per la gente di colore che vi partecipò, i musicisti stessi lo definiscono ancora oggi “indimenticabile” - in termini attuali, lo definiremmo mediatico - superando nel tempo il semplice valore musicale. La stampa americana lo relegò all’epoca, anche per le molte manifestazioni contigue, ad evento locale o poco più, riesumato (il termine può rendere bene l’idea dell’operazione) presso un pubblico più vasto dalla pubblicazione di due doppi album e, soprattutto, dal film/documentario dallo stesso titolo. Ma il film WattStax ebbe una limitata circuitazione nelle sale americane scomparendo quasi subito e solo con i decenni sarebbe stato assurto ad altro status, fino alla definitiva consacrazione grazie alla pubblicazione su Dvd nel 2004.
Al Bell vide WattStax come l’occasione giusta per riscattare il mondo che ruotava intorno al marchio di Memphis, lanciandolo allo stesso tempo nel mondo della celluloide nel tentativo, peraltro vano, di allinearsi a Berry Gordy jr che aveva in canna ben altro (come The Lady Sings The Blues e Mahogany, Sgt Pepper). Ad Al Bell il risultato di botteghino importava però fino a una certo punto. Per Bell era importante dare un segnale ai suoi investitori che la Stax era cosa viva, moderna, cangiante. D’altronde, i documentari sui grandi raduni musicali erano oramai un genere con una sua ragion d’essere già da alcuni anni e non solo per film come Monterey Pop o Woodstock ma, più a ridosso dell’universo nero, per la produzione e la distribuzione di lungometraggi come Soul To Soul, girato in Africa, o come quello dedicato al tour 1971 di Ike & Tina Turner.
L’evento, i cui proventi vennero distribuiti al fondazione ospedaliera Martin Luther King e al American Sickle Cell crebbe nelle settimane precedenti a livelli di tensione interni alla Stax ed esterni al gruppo di lavoro per motivi non banali.
La Stax chiese insistentemente alla LAPD di provvedere a un servizio di polizia fornito esclusivamente da Afro Americani e supplì un proprio servizio di appoggio affidandolo al filmmaker Melvin van Pebbles. Per lo stesso motivo impose al regista Mel Stuart una troupe anch’essa Afro Americana. Stuart aveva un nome come documentarista sin dal 1959 quando aveva prodotto per il celebre giornalista Walter Cronkite la serie chiamata “20Th Century”. In quello stesso anno viene assunto dalla David Wolper Organization con cui rimase sino al 1977 anno in cui la società documentarista venne venduta alla Warne Brothers. Proprio nel 1972 Mel Stuart raggiunse l’apice del suo successo commerciale con Willy Wonka & the Chocolate Factory con Billy Wilder, riproposto poi da Tim Burton molti anni dopo.
Stuart era un uomo che sapeva mediare con le maestranze e con gli artisti ed era un regista capace di trovare sempre la soluzione giusta. Interrogato sul significato dell’evento musicale e non dall’autore di questo articolo via mail, Stuart così si è espresso a proposito del documentario da lui realizzato: “'Wattstax' è uno sguardo complessivo su come i Neri Afro Americani concepivano la vita, dall’amore al sesso alla politica, ed è un report della loro condizione urbana evoluta a quel preciso stadio della storia d’America”.
Albert King
Per recuperare l’essenza della comunità di Watt, Mel girò più metri di pellicola durante l’affluire del pubblico che per documentare l’intero spettacolo. Fu proprio Stuart a suggerire alla Stax l’utilizzo di un giovane comico di colore che stava facendosi strada nell’intricato mondo degli stand up comedians Hollywood, Richard Pryor, per realizzare divertenti, curiose, maliziose e velocissime interviste volanti al pubblico . Lo stile losangelino della cultura nera era assicurato. Le sequenze iniziali di WattStax sul grande schermo restano nella storia del cinema nero come antesignane del videoclip, abbinate all’inconfondibile suono Stax.
Ben altra cosa era, a quel punto, accontentare gli artisti:
The Bar Keys, per scendere nei particolari, avevano previsto di entrare nel Los Angeles Coliseum alla guida di lettighe alla stregua del film Ben Hur ma i dirigenti della Stax glielo vietarono per non oscurare lo spettacolo di Isaac Hayes, all’epoca l’artista di punta dell’etichetta.
Hayes vive in quei giorni il suo momento d’oro (letteralmente d’oro, viene da aggiungere visto l’abito di scena, composto da centinaia di piccole catene a 18 karati!). “Black Moses” aveva seguito “Hot Butterd Soul” e si incastrava fra la colonna sonora di Shaft e il live al Sahara’s Tahoe di Las Vegas
«Non me ne importa niente - mi avrebbe detto anni dopo nel backstage del Montreux Jazz Festival a proposito degli anni neri che sarebbero seguiti all’epopea di WattStax -, non me ne importa niente della fottuta casa che mia moglie mi ha tolto da sotto il culo!. Niente perché mi resta il calore del pubblico, il fiato di 100 mila neri come me che fanno l’amore con la mia musica sulle gradinate di una stadio. Mi restano le canzoni che io ho scritto e la gente, tu lo sai, è stata raggiunta dalla loro forza tanto tempo fa. La mia musica è sempre stata vibrazione. E' amore e niente potrà cancellarla. Vedi lì - continuò mentre la sua voce riprendeva vigore - in quegli anni sono diventato talmente ricco e i miei spettacoli andavano talmente bene che alla fine della mia residenza annuale, un mese ogni anno per 5 anni di fila, al Caesar’s Palace di Las Vegas, gli organizzatori non avevano più soldi per pagarmi le percentuali pattuite e allora io mi divertivo a girare per il Caesar e con alcuni valletti al seguito portavo a casa quello che più mi piacevas“.
Ecco in che stato d’animo Isaac Hayes arriva sul palcoscenico del Los Angeles Coliseum quella domenica sera del 20 agosto 1972.
Mel Stuart gira bene la scena, d’altronde mai provata (il regista, assoldato all‘ultimo momento non ebbe il tempo per organizzare molto). Una macchina di grossa cilindrata che entra in uno stadio non è mai stata una novità negli Stati Uniti (i grandi campioni d Baseball entrano in campo così almeno dagli anni cinquanta), ma un nero che si presentasse così al suo pubblico, fu un evento che lasciò tutti stupiti. Anticipato da due Harley Davidson a sirene spiegate il suo ingresso fu trionfale mentre il gruppo sul palco si preparava ad eseguire il tema di Shaft.
Quello che però Hayes non mi disse espressamente, o meglio evitò di menzionare, e che critici come Rob Bowman (autore del bellissimo booklet allegato alla ristampa su triplo cd di WattStax che restaura le performance originali e mette da una parte i brani registrati in studio che ingrassavano senza aggiungere niente all’evento i due doppi album di una volta) hanno più volte sottolineato è che la manifestazione ebbe un solo vero trionfatore. Il suo nome è Rufus Thomas, con buona pace di Hayes.
Il segreto di Thomas era la non competizione : dj, attore, fantasista, mago, ballerino e molte altre cose ancora, Rufus era il padre di un po’ tutti, quello sulla cui spalla si poteva sempre piangere. Prima della Stax Records Rufus era già un icona di Memphis e i suoi programmi su WDIA avevano fatto la storia della radiofonia indipendente americana. Rufus era in grado di comandare il pubblico e di farlo emozionare con lui.
Dal palcoscenico di WattStax - bene ricordare che il palcoscenico era nel bel mezzo dello stadio vuoto!, come da accordi con la LAPD - Thomas riuscì nell’impossibile: fermare da solo una - prevedibile - invasione di campo generata peraltro dalle sue canzoni.
L’eccitazione del pubblico era alle stalle, il caldo di downtown Los Angeles era diventato impossibile da resistere, la gente voleva muovere il culo, ballare, fare l’amore sulle gradinate, bere e mangiare gelati, e mostrare a tutto il vicinato i migliori e più oltraggiosi abiti, nonché giocarsi le solite scommesse.
Thomas, pantaloni corti e tutina alla Batman rosa shocking, aveva organizzato un buon set con Fred Berry sul palcoscenico ad unirsi a lui per la prima canzone The Breakdown ma fu durante l’esecuzione di Funky Pinguin che la gente esplose letteralmente. Duemila persone circa raggiunsero il palco ballando come in una coreografia. Rufus li lasciò ballare in stato di “allarme controllato” come il codice di LAPD chiama questo tipo di eventi e poi li freddò in una sola frase “ You gotta Take Your Seat and Set The Pace!”.
Fu una giornata straordinaria di coscienza nera e partecipazione, condivisione e pace, soprattutto pace. La celebre litania nera, I AM SOMEBODY, fu lo slogan dell’intera giornata .
Albert King e Staple Singers (vennero presentati come “The Band That Has Gotten Over”) avevano avuto il compito di registrare il passo del pubblico sugli spalti con il loro originale blend di passato Blues e Gospel con il loro presente di Rythm & Blues, musicale secolare ed - addirittura! - brani di successo a metà fra tradizione e modernità. Fra i molti artisti programmati per esibirsi ma impossibilitati per motivi logistici vi furono The Emotions, Mel & Tim, Little Milton e Luthr Ingram. Quest’ultimo venne filmato poche settimane dopo altrove e la sua performance montata con segmenti del pubblico del Coliseum.
I Soul Children avevano proposto il loro celebre show con la imbattibile “The Son of Shaft”, e i più recenti successi e Bar Keys avevano infiammato il pubblico con il loro fune sempre più duro e primordiale (Giornata straordinaria - mi confessò un mebro bel gruppo originale a Porretta molti anni fa - ma non ricordo un cazzo se non che mi parve una cosa incredibile che lo Show fosse potuto arrivare alla fine senza intoppi!”).
I dirigenti della Stax, ancora memori degli scontri di Watt del 1965, erano consci che una manifestazione del genere poteva esplodere in una interminabile sequenza di violenza ma il reverendo Jesse Jackson, gli artisti tutti capitanati da Thomas assicurarono gli esecutive che tutto sarebbe andato bene. Jackson incanalò i presenti verso una riflessione generale tesa a una “azione politica costruttiva”. Perciò mentre Hayes, incarnazione vivente dell’anti eroe della Blaxploitation John Shaft, sale in scena, il reverendo esorta il pubblico alla calma perché una nuova invasione di campo avrebbe significato l’immediata interruzione della serata.
Il momento decisivo dell’ultimo atto di WattStax è quando Hayes oramai trasfiguratosi nel Mosè Nero, si libero del mantello per mostrare ai centomila le catene d’oro che lo rivestono. Orgoglioso della sua negritudine, è il segna della autodeterminazione dell’I AM SOMEBODY pensiero. Il pubblico, obbligato a una scelta - esplodere o godere dello show in atto - opta per la seconda opzione. Il sorriso stampato sul volto di Jackson esprime i significato del momento meglio di qualsiasi studio sociologico. Lo stile di un popolo ha il potere d trascendere la tensione che avrebbe potuto spezzare il sogno di quella domenica sera.
Al termine di dieci ore di festa ed esausto quanto il pubblico presente, il Reverendo Jesse Jackson, in coda alla plateale uscita di scena di Hayes scortato dai pulmini della polizia locale, tornò sul palco non per il classico sermone finale ma solo per invitare il pubblico a “unire le mani in preghiera e ringraziare il signore per questo giorno”.
Ernesto de Pascale
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