. | INTERVIEW Intervista ad Antonio “Rigo” Righetti Abbiamo intervistato Rigo, uno dei bassisti più apprezzati in Italia e già membro dei Rockin’ Chairs, in occasione della pubblicazione del suo primo album come solista, Smiles & Troubles, che segue l’Ep Songs From A Room Vol.1. Con lui abbiamo ripercorso per intero tutta la sua carriera dagli esordi fino al suo debutto come cantautore. Com'è nata la tua passione per il rock? Difficile individuare un momento preciso, quello che so per certo è che, come per molti, mio fratello maggiore di quattro anni è stato importantissimo nel formare il mio gusto e nel farmi assorbire anche solo per osmosi, dischi rivelatisi poi fondamentali. Stiamo parlando degli anni 70, io sono del 64, e quello che ricordo è mio fratello che torna a casa con un album dalla copertina in bianco e nero. Su di essa c’era un chitarrista con il chiodo e la telecaster appoggiato ad un sassofonista nero enorme. Era Born to Run di Bruce e mio fratello lo comprò all’uscita, non male. E comunque anche il fatidico cugino più grande che per la cresima ti regala le cassette del terzo di Santana e di Wish You Were Here dei Pink Floyd insomma, non è che siano degli incontri che ti lasciano indifferente. Come ti sei avvicinato al basso? Per caso. Diciamo che mio fratello Riccardo, sempre lui, era un ottimo suonatore di air -guitar ante litteram e a me divertiva vederlo mimare uno strumento che capivo non essere la chitarra, perché si suonava pizzicandolo con due dita. Imprenscindibile in quegli anni che la passione passasse attraverso l’incontro con Jack Bruce dei Cream, peraltro grandissimo cantante, uno dei primi giri di basso che ho “tirato” giù è stato Sunshine of Your Love. Sono sempre stato colpito dai bassisti capaci di creare riff, se pensi a Sunshine of Your Love capisci cosa intendo, canzoni che ti ricordi e fischietti addirittura scimmiottando quello che fa il basso. Un altro grandissimo da questo punto di vista è Paul Simonon dei Clash. London Calling è caratterizzato da un lavoro davvero bellissimo fatto dal basso , ma non solo, tanti altri pezzi dei Clash si reggono sul contributo fondamentale di questo strumento bellissimo. Io inizio come chitarrista acustico, addirittura credo di essermi anche esibito come cantautore alla Guccini ma ho rimosso per decenza. Poi in cortile un giorno, in uno di quei riti di passaggio tipici dell’adolescenza, io e i miei inseparabili compagni di calcio e giochi decidiamo di mettere su un gruppo, addirittura, per alcuni prima di sapere suonare qualsiasi strumento, segue, come per le nostre partitelle, la divisione dei ruoli e qui si presenta lo schema già adottato e che aveva portato il sottoscritto a ricoprire il ruolo di portiere, un po’ per l’altezza un po’ perché nessuno lo avrebbe fatto volontariamente, tutti pronti a diventare il chitarrista o addirittura il cantante, men che meno il bassista, per cui eccomi qui. Com’è nata l’avventura con i Rockin' Chairs? Cosa vi ha spinti poi al successo… E’ stata senza dubbio la perseveranza. Tieni conto che il gruppo nella sua conformazione più E Street Band (ebbene si’, avevamo anche due tastieristi, proprio come Bittan e the Great Late Danny Federici) nasce nel 1984 , ma io e Mel arriviamo più tardi. Il lavoro di preproduzione alla registrazione del primo disco New Egypt dura cinque o sei mesi, tre prove alla settimana, insomma, un bel lavoro totalizzante. Non è che rimanesse tanto tempo per altro, né ragazze né altre mani. E poi entriamo in studio e in 5 giorni registriamo e mixiamo tutto il disco, e io non sapevo ancora la differenza tra una strofa e un ritornello Insomma, credo sia stato un bel percorso fatto di tanti , tantissimi concerti e diverse soddisfazioni raccolte dalla gente che ci seguiva. Era anche un altro mondo, ove un paio di riviste specializzate potevano davvero darti una mano e magari, cinque ragazzi di Catania, galvanizzati dalla copertina, ti telefonavano e si offrivano di organizzare un concerto dei Chairs e tutto seguiva un suo percorso fatto di naiveté ma anche più puro se mi passi il termine. Potresti tracciare un bilancio del tuo periodo con i Chairs? Assolutamente positivo. Intanto è stato il momento del mio secondo matrimonio. Sono infatti bigamo. Da oltre 25 anni io e Robby Pellati, colui che chiamo la mia seconda moglie, condivide e ha condiviso con me ogni aspetto di questo strano lavoro, seguendo tutta la evoluzione, dalle camerate da quattro o cinque (proprio a Catania se non ricordo male) fino agli alberghi cinque stelle del periodo Ligabue, fino a tornare alle triple di Smiles & Troubles. E poi io e Robby abbiamo avuto la fortuna di lavorare in alcuni dei migliori studi di registrazione del mondo, tra gli altri, i Southern Tracks di Atlanta Georgia, che Bruce usa da quando, purtroppo, lavora con Brendan O’Brien, fino al lavoro su Smiles & Troubles effettuato al Sonic Ranch di El Paso Texas, studio pazzesco (visitate il sito www.sonicranch.com), manifestazioni come il Campovolo e i vari stadi di San Siro e Olimpico, fino al Pavarotti International, dove abbiamo diviso il palco con musicisti del calibro di Eric Clapton e Steve Gadd. Nel periodo insieme ai Chairs hai avuto modo di collaborare con gente del calibro di Robert Gordon e Willie Nile, quanto ti hanno influenzato musicalmente? Guarda, la cosa che mi piace sottolineare è che da sempre sia io che Robby abbiamo impostato un rapporto alla pari con gli amerigos. Non mi sono mai piaciuti gli zerbini, e ti assicuro che ne ho visti, quelli che nel confronto con gli stranieri, soprattutto americani e inglesi, si sottomettono a una presunta autorità. Poi è chiaro che nel rapporto con dei grandi musicisti ma soprattutto degli esseri umani c’è solo da imparare, soprattutto in termini di modestia e approccio. Come nasce invece il Rigo cantautore? Forse dalla necessità interiore, volendo fare una citazione “alta”, sto parlando di Kandinsky e del suo Lo Spirituale Nell’Arte, un libro che traccia dei parallelismi tra la pittura e l’arte d’immagine e la musica, Kandinsky definisce necessità interiore quella spinta insopprimibile a comunicare, a raccontare la tua storia, il tuo angolo visuale, il tuo mondo. E’ una spinta che non puoi reprimere, tant’è che è più forte della tua ritrosia o del tuo pudore, così, dopo una ventina d’anni da bassista, quasi per gioco ricomincio a cantare, dapprima come voce narrante di alcune composizioni poetiche in forma di reading, con una forma di rifiuto un po’ snobistica della forma canzone, fino ad approdare al grande piacere giocoso della composizione canonica, una cosa che per me è davvero un bellissimo gioco e una passione che proprio non voglio reprimere. Nel 2005 hai pubblicato Songs from A Room, un mini album davvero interessante nel quale ho notato una certa attitudine al reading, alla sonorizzazione, allo spooken word. Ce ne parli? Songs from a Room nasce proprio come secondo step di un’avventura tutta mia, condivisa con Robby. Vedi, l’aspetto nostro e il nostro interesse è quello relativo al concetto di sezione ritmica, quei connubi che hanno fatto il suono della musica rock, da DJ Fontana e Bill Black con Elvis, fino a Entwistle e Keith Moon con gli Who, Roger Hawkins e David Hood ai Muscle Shoals, oppure i miei preferiti in assoluto Kenny Gradney e Richie Hayward dei Little Feat di Lowell George, senza dimenticare Tallent e Weimberg o Charlie Watts e Bill Wyman degli Stones, Paul Simonon e Topper Headon con i Clash o Brad Wilk e Tim Commerford dei RATM o Rick Danko e Levon Helm della Band. Insomma quelli che hanno un suono, quelli che riconosci, quelli che vanno a tempo e lo perdono assieme, quelli che fanno il groove, quelli capaci di mettersi a servizio della canzone, quelli che non sono alla ricerca dell’affermazione personale ma sono lì per dare il loro apporto, quelli che non hanno mai studiato ma hanno suonato tanto, quelli che i difetti li fanno diventare il loro marchio. Ecco io e Robby siamo così, da questo nasce la nostra personale necessità di provare “comunque”, non siamo musicisti che stanno a casa a suonare da soli, abbiamo bisogno di canzoni alle quali applicare le nostre sperimentazioni così, nei momenti di pausa, se non abbiamo canzoni, ci creiamo problemi come un matematico gode nel risolvere equazioni noi ci siamo messi di fronte ai miei provini e abbiamo cominciato a risolvere problemi , solo che ci abbiamo preso gusto e così, finanziandoci da soli ci siamo trovati a registrare 4 canzoni mie originali e una cover. Questo l’abbiamo fatto in cinque giorni compresi i missaggi in uno studio dell’appennino reggiano e il risultato è Songs from a Room Vol.1. In particolare mi piacerebbe che tu raccontassi ai nostri lettori qualcosa sulla splendida Walking Down The Green River, brano davvero molto intenso... Walking Down è un brano che nasce da una prosaica camminata lungo il fiume Po a Torino , dalla periferia, dove risiedevamo durante uno dei nostri concerti con Luciano, fino ai Murazzi. Spesso in tour trovo il tempo per non fare niente e guardarmi attorno, è una bella opportunità che da i suoi frutti, e Walking Down è proprio questo, una pausa nello scorrere incessante del tempo che si cristallizza, certo in inglese suona alla Creedence ma in realtà di Clearwter ce n’era ben poca. Devo dire che il brano in questione è uno di quelli che mi ha rassicurato, laddove avessi dubbi, sulla liceità del mio tentativo. Sai, dopo vent’anni di bassismo la gente ti inserisce in quel file lì poi gli dici “adesso canto”. Non tutti sono convinti. Dopo aver ascoltato Walking Down, posso dire che molti mi hanno dato ascolto. Ti svelo una cosa, su myspace, proprio in riferimento a Walking Down, ho ricevuto un messaggio di apprezzamento da parte di niente di meno che TBONE BURNETT al quale avevo scritto... è un messaggio che quando mi è arrivato sul computer mi ha fatto vacillare tant’è che ho chiamato mia moglie e le ho detto “ questa è pesa Fra...guarda!!!” Come mai hai deciso di rileggere (Sittin'On) The Dock Of The Bay? Non lo so!!! Davvero, la canzone è gigantesca, iconica, enorme. Credo che la scelta faccia parte della mia follia. Infatti arriviamo in studio preparati, sai pagavo io, avevamo fatto una preproduzione bella intensa e siamo un trio, l’approccio non è per nulla casuale. Per dire, il riff Walking down viene dal mio provino così come il riff di You saw The light, tutto è dosato per dare risalto alle parole e alle atmosfere, però , mentre ci sistemavamo per registrare ho cominciato a giochicchiare con il giro armonico di Sittin’ e visto che ero il produttore di me stesso ho detto: “Registriamo!” però devo dire che il risultato mi piace, è un po Fun Lovin’ Criminals e un po’ folle Veniamo a Smiles & Troubles. Ci parli della nascita di questo disco e delle sue ispirazioni? Come al solito non c’è una ispirazione precisa, si tratta del solito mix di suggestioni letterarie, se avrete voglia di approfondire i testi ci sono riferimenti a Carver, in “A Girl Called You”, o a un “Sober Kerouac”, un Jack Kerouac sobrio in The Moon is you, fino a racconti di visioni di viaggio, “The One Who Watch” è stata scritta a Cosenza ad esempio, ed è sicuramente autobiografica, racconta del mio ruolo di “guardatore”, anche passivo, e tutti le cose che puoi vedere camminando, una statua di Dalì in mezzo al corso principale, spazzatura, un bimbo piccolo che ti fissa con lo sguardo limpido della verità e la sensazione di solitudine che si prova lontano da tutto. La genesi in realtà è molto semplice, io giro sempre con una chitarra acustica e un registratore mini disc che mi permette di fermare strutture armoniche e ritmiche, mentre i testi sono davvero un gioco gioioso tra la verità e l’iperbole. Così, dentro le camere di albergo che ti trovi per caso a occupare, mi metto a giocare poi, finito il tour, come un cercatore d’oro, passso al setaccio e risento quello che vale.ecco Smiles & Troubles. Con questo disco debutti definitivamente come cantautore. E’ l'inizio di una nuova carriera o solo una pausa momentanea come bassista? Non lo vedo come un momento di distacco anzi, ci vedo una grande continuità, sai una delle cose che mi è stata più utile per capire e approfondire il ruolo del basso elettrico dentro a una canzone è stato proprio ricoprire un doppio ruolo, c’è il Rigo che ha scritto il pezzo e deve farlo arrivare al meglio e Rigo bassista che sa perché deve censurarsi e occuparsi di accompagnare e fare solo gli ottavi. Ora l’ho capito davvero!!! Devo dire che fare il bassista mi piace ancora davvero tantissimo, per cui se c’è qualcuno che legge e che ha bisogno di un bassista io sono qui!!! Quanto sono importanti le tue letture per il tuo songwriting? Direi che le mie letture , disordinate e bulimiche, sono allo stesso livello degli ascolti, è banale ricordare l’importanza della prosa di Kerouac nella musica e viceversa, credo che se ascolti Jack che si registra mentre legge On The Road capisci perché jazz e beat erano così legati, ecco devo dire che buona parte della letteratura americana ha questo aspetto interessante, ritmico, prosodico, una precisione e una “secchezza” una sintesi invidiabile, penso ad esempio a Hemingway e rimango basito di fronte alla capacità di tagliare il superfluo poi a me piacciono anche gli scrittori barocchi, ma te lo devi poter permettere e non è affatto facile. Uno degli ultimi che è stato capace di andare in quella direzione è stato David Foster Wallace, la cui prematura scomparsa mi ha davvero colpito. Torniamo a Smiles & Troubles e parliamo dei suoni che ho trovato molto originali. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento a livello di produzione? Difficile che riesca a metterli tutti, di certo le sonorità sono quelle di Daniel Lanois, o T-Bone Burnett, quel “mistero “ e quelle atmosfere torbide, un certo approccio minimale, da Brian Eno fino aLa Monte Young. Non solo, devi sapere che per me e Robby il “suono” è un’ossessione, è un continuo fare riferimenti, disquisire di rullanti e di colpi di cassa, un dibattito perennemente aperto sull’espressività. Io ad esempio, su Smiles & Troubles ho chiesto a Robby di dosare ogni colpo di piatto, di pensare ogni colpo perché ho un problema con gli stessi, non m piace lo sferragliare di certa musica italiana….insomma credo che si senta che delle decisioni nel bene o nel male ne abbiamo prese!!! Ci parli di Just Like St. Thomas? Diciamo che banalmente siamo nell’ambito dell’incredulità, San Tommaso è appunto colui che non crede fino a che non ha una prova materiale tangibile di quello che indaga. Ecco, il brano nasce dalla constatazione di quanto tutti siamo sempre più dei San Tommaso, non crediamo se non infiliamo impudicamente le dita nelle ferite, è una conseguenza di un’assetto sociale che ci fa credere di essere tutti degli esperti, di sapere tutto e di non poterci fidare di nessuno perché la fregatura è li dietro l’angolo. Chissà quanto ci stiamo perdendo. Altro brano che a mio parere merita attenzion è Tonight Tonight è il brano dell’amarezza per l’ammissione di un errore ma anche della liberazione da un giogo. Il protagonista ringhia la sua liberazione dall’ossessione di amore o presunto tale e dichiara il suo non sentirsi più coinvolto nelle decisioni di una persona con la quale in definitiva non aveva nulla da spartire. Il brano che chiude il disco On The Wrong Side Of Everthing, è senza dubbio il vertice del disco. Come nasce questo brano? Dalla sensazione che credo abbiamo provato tutti di sentirci letteralmente dalla parte sbagliata di tutto. Sai, quel non sentirsi in sintonia con quello che la società segue, sia esso l’arricchimento personale o il menefreghismo, il malcostume culturale o il culto della personalità, è il riconoscimento che solo ripartendo dall’aspetto personale e singolo possiamo essere incisivi sul mondo. In genere è il brano che uso per chiudere i nostri spettacoli perché ha una sorta di epicità e di crescendo che lo fa l’ottima chiusura dello spettacolo. Veniamo alla band di Smiles & Troubles, ci sono vecchie conoscenze come Robby, qualche amico incontrato sul palco come Mauro Pagani e Marco Montanari, ce ne puoi parlare? Ci parli anche delle sessions? Marco Montanari è il giovane chitarrista che aveva già registrato Songs From a Room, è un chitarrista che suona in modo moderno, fuori da uno schema di asssolo di chitarra ma piuttosto con la sensibilità di un tastierista, come avrai notato non ci sono assoli veri e propri ma la ricerca è andata in direzione di creazione di parti melodiche. Ora Marco ha un progetto suo e noi dal vivo ci avvaliamo del bravissimo Francesco Pugnetti. Robby ne ho già parlato. È davvero il promotore di questa avventura, Mauro Pagani ci ha fatto il regalo di passare in studio con i suoi strumenti e devo dire che ha aggiunto magia e poesia nei quattro brani che ha suonato. Le sessions di registrazione, quello che in genere si chiama tracking, le abbiamo effettuate a Correggio negli Zoo Studio di Luciano, cinque giorni per dieci brani. Poi mi sono finanziato un viaggio a El Paso dove lavora Fabrizio Simoncioni che è l’engineer che è dietro al suono dei miei due cd. Lì a El Paso ho fatto un po’ di turni per un progetto pop punk in messicano, ragazzi giovani chiamati Aurum prodotti da Ettore Grenci , che mi ha dato il suo tempo e le sue energie creative per mixare il cd. Insomma questa volta il viaggio è stato ancora più variegato e pieno di incontri. Ma sto già pensando al prossimo!!! Concludendo tu e Robby vi apprestate ad un mini tour con il vostro vecchio amico Willie Nile, come sarà ritrovarsi sul palco con lui? Naturale, senza esagerazione, credo faremo un bello spettacolo in parte newyorkese ma anche emiliano e spagnolo, suonerà infatti la chitarra Jorge Otero, chitarrista e cantautore spagnolo. Saranno nove spettacoli ove avremo anche l’onore di aprire presentando alcune canzoni di Smiles & Troubles, una bella occasione. Salvatore Esposito |
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