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INTERVIEW

Intervista a William Elliott Whitmore
Sull’onda emotiva di Animals in The Dark incontro telefonicamente William Elliott Whitmore, febbre alta, voce roca che sembra un rantolo. La sua vita è un inferno, mi dice, ma subito aggiunge ” un inferno da cui non vorrei mai uscire” e chiosa con un vecchio detto “scegli il paradiso per il clima e l’inferno per le compagnie”. Così, giusto per rompere il ghiaccio fra noi.
Elliott ha molto da spiegarmi: come si fa ad esempio a coniugare l’etica del punk con l’esibirsi al banjo oppure come sia riuscito a dar seguito al suo pur straordinario terzo album per la Southern, “Song of the Blackbird” con il rauco “Animals in the Dark“.
“L’amore per la country robot music è sempre stato con me, non ricordo un tempo in cui io non amavo la musica country e bluegrass. Poi ho incontrato Jenny Hoyston (di Erase Erratta) e con lei ho vissuto in una topaia con altri due tipi per molto tempo e lì dentro scopri che una punk come lei era la più incredibile cantante country che le orecchie avessero mai ascoltato”.
E “Animals in the Dark” gli chiedo ? Non era certo facile?
“Niente è facile - mi dice lui - ma io avevo le idee chiare su ciò che volevo”. Poi si corregge “ le idee chiare, Ernesto, non tanto sulle canzoni quanto sul fatto che io volevo scrivere un Manifesto Politico per la Pace. Tutto è nato così, da questa convinzione!”
Animals In The Dark è un pugno in faccia alle sicurezza dell’alt.country e del genere americana, molto più che una semplice continuazione della trilogia sudista dei tre album precedenti.
L’album nasce in un ristretto arco di tempo ma proprio per questo motivo vive su una urgenza tutta nuova per Whitmore.
“È il risultato dei miei ultimi anni sulla strada, la somma di tante influenze che comprendono anche il genere hip hop una mia vecchia fissazione” mi dice convinto. “Amo i primi Public Enemy, li trovo popolari come lo era il folk degli anni venti, con le stesse finalità e lo steso senso di vitalità intima”.
Insomma, per un artista il cui ultimo album comunica un così profondo senso di organicità ci si scontra - o meglio - si scopre di avere a che fare con un musicista dai toni ortodossi.
“Vengo da una famiglia di musicisti e io ho le mie idee. Per me il massimo sarebbe collaborare con The Flaming Lips ma quando è il momento di scrivere tutto passa e io comincio a entrare in un differente stato d’animo”.
E Animals in the Dark mostra infatti il lato oscuro di Whitmore, mettendo da una parte la sua ambigua giovialità. Con calma, cambiando ritmo e tono Whitmore inizia a raccontarsi
“ Ho perso mio padre e mia madre a breve distanza l’una dall’altro. Non sapevo più che fare. Cominciai a scrivere canzoni. Veniva fuori questo rimpianto di non poter fare o dire più cose che una volta potevi. Non credo nel cielo o nell’inferno ma - pensai - se fluttuavano da qualche parte, e mie canzoni sarebbero arrivate a segno. E per me - conclude - quella fu la strada per cominciare a guarire, da solo, e solo grazie alle canzoni che avevo cominciato a scrivere. Fu un notevole passo avanti!”. Whitmore stenta a credere che qualcuno dall’Italia si interessi a lui: “ho girato il vostro paese in lungo e in largo. Sono stato a Napoli, Roma, Pistoia (?!?) ma non pensavo che la mia musica poteva raggiungere gli scaffali di un negozio, un giornale. Perché?”, mi chiede.
La risposta non c’è e l’intervistatore non spiegherà all’artista che le carte sono tutte ancora da giocare ma invece si preoccuperà di tiragli fuori qualche altro tassello per riportare al lettore un puzzle il più completo possibile. Andiamo oltre. Gli chiedo: Come è cambiato il tuo stile negli anni?
Whitmore : come nelle fotografia, le mie composizioni si sono evolute intorno a un nucleo ma si sono sviluppate grazie al setting, alla strumentazione circostante. Nel mio nuovo album questo è ancora più evidente. O almeno così lo ritengo io! Mi aiuta molto tornare nella mia fattoria nello Iowa. Lì sono totalmente fuori dal mondo. Gli indiani Lakota hanno le Black Hills e io ho Lee County. E’ importante almeno una volta l‘anno, essere fuori da qualsiasi schema altrui - e continua : Quello è il luogo dove vengono scritte le canzoni. Lì riesco a congelare tutto il mondo intorno, la mia vita trascorsa nel anno precedente al mio ritorno.”
Elliott a questo punto ci spiega ancora meglio il processo: “Uso temi legati alla quotidianità della mia vita nella fattoria. Per me quei temi riflettono temi più ampi, universali oserei dire. Cerco di pensare ai testi come qualcosa di “pesante” che resti e che abbia lo stesso valore adesso come fra cento anni.Ognuno ha il suo stile e questo è quello che ho cercato - e spero aver trovato - per Animals in the Dark”.
Whitmore però questa volta, per la prima volta si spinge oltre, trasformando l’album in un preciso commentario politico
“Dovevo tirare fuori qualcosa che non potevo più tenermi dentro” dice. E poi si zittisce. Compio una inversione di marcia.
Come te la passi a suonare da solo?
“Non è sempre il massimo, ci vuole molta concentrazione. È una pecie di causa persa in partenza che però vale la pena vivere anche per una sola canzone, per un solo momento. È una chance, ma la musica tutta dovrebbe essere vissuta come una chance! E‘ qui che torna l mia attitudine punk! Ma - aggiunge - un giorno mi sono chiesto cosa volevo da me stesso e ho capito che avrei dovuto fare il conti con le mie radici. Così decisi di lasciare il resto e prendere su il banjo!”. Come Pete Seeger ? Incalzo io. Ci pensa un po’ su. ”esatto, come Pete Seeger - mi dice -non stavamo forse parlando di una Manifesto Politico per la Pace ? E lui, Ernesto, cosa fa in fin dei conti?”.
A questo punto della nostra conversazione due differenti influenze vengono a galla, una per motivi geografici e di ricorrenze, l’altra per motivi più attitudinali. Iowa, la terra dove Buddy Holly ci lasciò le penne, Des Moines: ”The day the music died - fa Elliott con tono modesto e riflessivo - a quell’epoca aveva senso il rock and roll, il country non era ancora una musica alternativa come lo pensiamo oggi grazie gente come Wylon Jennings (che incidentalmente doveva essere su quel aereo maledetto con cui si inabissò il 19enne Ritchie Valens, Big Bopper e Holly), era una musica reazionaria. Mi viene allora in mente una frase di John Lyndon allo scioglimento dei Sex Pistols “inutile andare dove già si sa, convertiresti chi convertito già lo è”. Si ferma un attimo. “Ecco, io vado dai non credenti!”.
E il tono confessionale, intimamente gospel di Animals in the Dark viene così improvvisamente fuori.
“la strada - ammette Elliott - è stata dura ma non ho mai incontrato gente cattiva o che non mi portasse rispetto. Mi è piaciuto trovarmi in locali come il Continental a NYC e suonare dopo band di black metal con il mo banjo basta. Son stato spesso ben ripagato come gli opening che ho fatto per The Pogues. Loro sono dei semi dei per me!!! Shane (Mc Govan) mi ha dato una grossa spinta, lo ammetto. Si è messo lì una notte ad ascoltare tutti i miei dischi e mi ha detto cosa andava e cosa non andava. Questo vuol dire accrescersi!”
E ora che la Anti, l’etichetta per cui incide Tom Waits, che tipo di riflessioni hai fatto a proposito del tuo futuro?
“Ho pensato che forse un giorno potrò stringere la mano a Waits, spiegarli quanto lui abbia contato per me, canzoni come Chocolate Jesus ce ne sono troppe il coraggio di mettersi in gioco, al limite della impopolarità chi lo ha più oggi?”
E mi lascia con una ultima riflessione, invero piuttosto profonda ”Una volta, forse era un giornalista, forse eravamo a un campeggio, non ricordo si parlava della nostra gioventù e del punk, di come il punk ci aveva accompagnati io pensai quella sera e lo penso ancora oggi che devi essere ORGOGLIOSO di cambiare, di crescere, di evolverti. Non è un selling out, non è una svendita, non è uno sputtanamento. A me piace vedere persone adulte con i propri figli, piace vedere persone mischiarsi. Quando sento che il mondo è un grande, unico melting pot sento che ancora la speranza, una speranza alternativa, responsabile. E anche se sarà una lunga battaglia, vuol dire che vivere avrà davvero senso”.
Lo saluto con la sensazione di avere avuto a che fare con un uomo onesto e giusto. Come le sue canzoni che da oggi avranno per questo cronista un senso più profondo.
Ernesto de Pascale
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