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SPECIAL

Sly & The Family Stone - a tribute



Sly Stone, nato Sylvester Stewart a Dallas nel 1944, non era quello che si potrebbe definire “un-tipo-qualunque-che-va-bene-per-tutti-i-giorni,” lui era semplicemente Speciale.
Dai tempi della scuola e poi durante quelli della Autumn Records di Tom Donahue - il celebre Big Daddy, un grasso dj che con la scusa della TOP 40 raccattava bands e le scaraventava sul placo del Cow Palace di San Francisco assieme al suo partner Bobby Mitchel, già a 19 anni Sly Stone era SPECIALE.
Speciale quando produceva i Mojo Men o i Beau Brummels, speciale quando trasmetteva a KSOL con una mistura di musica nera e bianca che nessuno sapeva imitare. Già allora la sua idea era quella di “A whole new thing” e la sua band era “The Family”.

Sylvester Stewart dovette vedersela con le cose come stavano sin da ragazzo:
cosa significava veder animati i weekend del ghetto nero di Fillmore in San Francisco da band bianche?
Perché la sua gente non reagiva?
Forse perché la forza ispiratrice dei Sam & Dave, degli Otis Redding, dei Wilson Pickett e delle Aretha Franklin erano ormai tramutate in formule precise, macchine da soldi, locomotrici per le classifiche?
O forse perché la fine è sconosciuta a tutti e sei mesi dopo Monterey l’osannato Otis Redding già non c’era più?
Sly sentiva solo il bisogno di riempire il gap con una cosa completamente nuova. Lo si poteva fare, lo si doveva. fare. Lui, poi, lo voleva fermamente, in una ipotesi che vedeva tutti insieme bianchi e neri, senza limiti alla conoscenza del risultato.

Per cominciare scelse un paio di bar nei sobborghi, roba sporca, roba da spogliarelli, donnine e soldi loschi. Hayward e Redwood City gli sembrarono dei posti decentemente selvaggi e squallidi per provare, chissà. Lì sapeva di trovare un pubblico incredibilmente preciso: bikers, ubriaconi, studenti di college non per ricchi, disordinati mentali e qualche figlio di buona donna agreste scampato alle campagne del sud dopo la sbornia di un Ovest che solo Steinback aveva raccontato come allettante. Forse qualcun altro, ma Sly non sapeva e non gliene importava molto. Ma era certo che se avrebbe colpito quel pubblico avrebbe steso chiunque altro.

Le sue capacità musicali così già ben definite, la conoscenza del lavoro e del business lo avevano tramutato in una specie di pazzo, lucido e sano. Un pazzo che sapeva che un qualsiasi rischio superato è superato per sempre. Lo si poteva vedere anche dallo stile di abiti che indossava, pazzia ed ottimismo tipici del tempo, che avevano però un non so che di culturale, di sgangheratamente buono per tutti. La capacità di comprendere quali erano le formule per le buone canzoni faceva il resto. Il giovane uomo era, insomma, in movimento - verrebbe da pensare a Prince se non sapessimo che è emulo di Sly! - e lo spirito di San Francisco stava per trovare qualcosa di nuovo e fresco, mentre l’estate dell’amore svaniva per sempre.
Sly prendeva vantaggio dalle invenzioni ritmiche di chi lo aveva preceduto ma non tradiva lo stile puerile dei teenagers neri, diciamo alla “Fingertips” del piccolo Stevie Wonder. Stewart, era, a conti fatti, poco più che uno di loro.

Libertà, libertà, libertà. Una libertà armonicamente ricca e complessa, selvaggia e anarchica, disse qualcuno, ma affezionata, coerente. Era, e lo fu fin da subito, una celebrazione che affermava gli aspetti fin ora descritti. Una specie di cartone animato per gente reale, o, come diceva una canzone di quegli anni “ A different strokes for different people”.
E -pensò Sly- l’aggressività di quell’impatto musicale e artistico non poteva destare più preoccupazione di quanto la destasse la marcia su Washington. Il gruppo vedeva nella audience mista quella indipendenza che cercava di proporre. Ad esempio di ciò vogliamo sottolineare l’approccio vocale del gruppo, tutti cantavano, affinché ognuno potesse dare qualcosa in più. Voce che oltre a “fun”, divertimento, era anche impulso vitale, attacco politico, violenza, addirittura, in alcuni casi, insulto. Ad una sola condizione: che tutto questo servisse per crescere.

Crescere significava infatti per Sly raggiungere una autocoscienza globale, quella da lui profetizzata (“thank you (fallettinme be mice elf agin),” “grazie per farmi ancora essere me stesso,” diceva al suo pubblico); una autocoscienza che serviva per affrontare un grosso passo, quello dell’integrazione sociale, perché solo attraverso l’integrazione la lotta poteva essere paritaria. “Poco male se qualcuno ti osserva” cantava Sly in “Somebody’s watching you”, “tu fatti osservare con orgoglio”.
“Sly era vincitore” scrive Greil Marcus nel suo bel libro “Mistery train”: ”per un attimo sembrò farcela, non solo con la gente della sua razza m tutti i campi (pareva, infatti ripetersi la storia di un altro teenager di successo, il produttore Phil Spector, autore di tante canzoni “adolescenziali” per ragazzini brufolosi bianchi nei primi anni ‘50). Guidava -continua Marcus- le migliori macchine, indossava gli abiti più sensazionali, suonava la miglior musica, la sua, e tutto avveniva mentre gli avvenimenti intorno a lui sembravano disporsi ognuno al proprio posto. Eventi al passo con i tempi, per stile, per ambizione, per rapporti con i teenagers di quegli anni, per rapporti con i fratelli maggiori, anche con quelli bianchi”. Per alcuni anni le parole di “everyday’s people” cantato nel disco “Stand” sono assolutamente autobiografiche. Un mix di sensazioni ed emozioni quotidiane con Sly (calcolato? involontario? volontario?) protagonista.

Per un attimo lungo quanta tutta la fine degli anni ‘60 l’Utopia sembrò non essere più Utopia. E, ci sentiamo di dire oggi, se non ci fosse stato quell’ottimismo non ci sarebbe potuta essere tutta la potenza distruttiva, anche personale, che affondò Sly dalla metà del decennio successivo.
Prosegue Marcus: “Nella musica pop di quegli anni c’era bisogno di un’ancora (ancora oggi ce n’è, bisogno...) e Sly ripeteva la gioia dei Beatles e l’impatto dei primi Rolling Stones ma per il popolo nero; aveva avuto, cioè, la giusta intuizione che andava cantando nel brano “you can make it if you try” (ce la puoi fare se ci provi)”. E, secondo un semplice ed elementare sistema che accomuna tutti i grandi, Sly and the Family Stone stavano solo suonando una musica che nessuno aveva mai suonato prima.

L’album del 1971, “There”s a riot going on” rimane impareggiato fino ad oggi, invece, non perché definì un muro di separazione con iI passato della musica nera ma perché costruì il muro stesso.
La sensibilità di Sylvester Stewart è sufficientemente profonda da fermare in un attimo, e fotografare, l’intera massa della musica popolare per bloccare l’ascoltatore, per scuoterlo con l’impatto della novità e per creare una sottile linea di demarcazione fra ciò che è stato e ciò che non è stato ancora raggiunto. Non è musica casuale e le domande che si pone non sono casuali, rinforza il ruolo dei musicisti di colore affinché questi reagiscano o vadano avanti, cercando nuove direzioni. Alcuni mesi dopo la pubblicazione (dalla seconda metà del 1972 alla prima dell’anno successivo) l’impulso di questo album emerse in altri artisti che raggiunsero la massa degli ascoltatori neri attraverso la radio.
“There’s a riot going on” è la rappresentazione della split personality di Sly Stone in quegli anni: presentarsi o ritirarsi, ballare o far pensare? riconoscere nel pubblico quella forza che lo avrebbe anni dopo rovinato o allontanarsi da loro?
Ecco allora un album con in copertina una bandiera americana. Al posto delle stelle, però, fiori. Sono passati tre anni da “Stand”, dal grande successo, dal bagno di Woodstock. In quel periodo Sly, divenuto uomo troppo giovane, dà alle stampe solo un singolo (“Everybody is a star” nel 1970) e, in una intervista, parla del suo prossimo album come di un disco “ottimista”. A pensarci bene l’album “Stand” lo presupporrebbe; ma i mesi passano, qualcosa si rompe.
I concerti degenerano, fino ai disordini di Chicago, Sylvester rimane schoccato dalla scomparsa di Hendrix (assieme al quale avrebbe dovuto fare una Jam a Londra il 18 settembre 1970 prima di volare a Roma per cominciare la sua breve tournée italiana che lo avrebbe portato dal Piper di Roma allo Space Electronic di Firenze), la droga lo cattura, le famiglie più importanti dei gangster neri lo plagiano. E, quando nel tardo 1971 l’album viene pubblicato, la sorpresa è grande: un album oscuro, difficile da ascoltare con grooves lenti, anti-celebrativo. Se Robert Johnson fosse vissuto negli anni ‘70 avrebbe sicuramente apprezzato quei solchi, lo stesso dicasi per Hendrix, così come Miles Davis lo volle, addirittura, celebrare in un brano del doppio “Get up with it” (“Sly”).
“There’s a riot goin on” è un album di esplorazione sui cambiamenti della gente di colore, sulla loro politica. Le buone intenzioni degli anni ‘60 sono diventate boomerang, abbattendosi perversamente su chi le aveva espresse. Adesso c’è “There’s a riot going on”, c’è del male nell’aria, in quel 1971; quel che di buono resta è proprio aspettare un album, quello di Sly, ma il risultato non è un disco facile.
L’album, un lavoro complesso, si apre con un brano, apparentemente il più facile, ritmato da una piccola scatola di ritmi elettronica, un giocattolo che avrebbe influenzato tanta musica negli anni a venire: “it’s a family affair” subito un successo. Le parole che Sly scrive per il disco sono alcune delle più ricche di fantasia e potenza di tutta la storia della musica rock & roll. Le immagini perfettamente sviluppate, le canzoni raggiungono un intenso balance. Ogni elemento della musica sembra spingersi oltre e possiede un proprio peso; non una visione, non una nota che si perda. Niente è gratuito.
Sly vede il suo gruppo dei Family Stone con un preciso significato: ogni componente della band deve avere la propria voce ; di quella stessa, lui, Sly, è punto di nascita e radice di una visione e di una emozione autentica che andava - allora - professando, più autentica in quanto condivisa dagli altri componenti del gruppo.
Commenta il critico Greil Marcus: “ ... questo accadeva perché qualunque fosse la visione di Sly, positiva o negativa poco importa, nel disco “There’s a riot going on” si rispetta sempre il tentativo, professato e affermato, del raggiungimento della liberazione. Nella propria autorità musicale si può riconoscere la libertà dei cantante; la libertà ha bisogno di una dimora? Sly gliela costruisce incidendo un disco, quello in questione per l’appunto”.

Le linee melodiche di Sylvester Stewart, infatti, fin dai dischi precedenti, sono sempre complesse, personali, imprevedibili, libere. Sly è precursore di quella ricerca amplificata negli stessi mesi da Marvin Gaye in “Let’s get it on” o dai Temptations in “Cloud nine” o ancora da Curtis Mayfield e, pochi anni dopo, dal poeta Gil Scott Heron, una musica fatta di composizioni fortemente individuali, che si esprime al meglio perché ogni volta compiuta. Una musica che rispetta la libertà che viene dalla strada, dal divenire, non dagli ordinamenti e dalle discipline religiose o moralistiche.
Marcus riflette e intelligentemente spiega: “ la migliore musica popolare non riflette gli eventi quanto riesca ad assorbirli, il pessimismo di “There’s a riot going on” non è quella sorta di romanticismo che usualmente troviamo nel rock & roll. Quello è ottimistico più o meno per definizione perché la cultura popolare punta sempre verso “la prossima cosa”, ed è convinta che valga la pena andarci dietro. Ciò accade -specifica Marcus- perché il rock & roll è legato a quel senso gioioso del tempo e a quella falsa idea che i giovani hanno che la morte non arrivi mai. La cultura pop del pessimismo è, più o meno sempre, una cultura di auto-indulgenza, lasciando al pubblico e all’artista una via di scampo”. Questo “narcisismo rovesciato” è assente in Sly e nel suo album del 1971: un disco che fa paura, immobile, che butta giù qualsiasi altro album, perché il negativismo che esprime è sufficientemente duro per proporre soluzioni a fronte di commenti altrui che potevano suonare come triviali, alternativi, falsi, che potevano sembrare commenti da risolversi nella propria sfera del personale, o attraverso la politica. A tutto questo “There’s a riot going on” si scaglia. contro.
La leggenda quotidiana comune ci dice che quel che importa è che il rock roll porti del divertimento, che porti qualche cosa che non si sa, che non si conosce, che porti un’idea che il domani racchiuda un qualcosa in più. Ma tutto ciò è già accaduto in quel 1971. È a quel punto che si presenta Sly and the family Stone: egli parla un verbo, una lingua, batte un tempo, ritma il suo popolo, proprio come aveva fatto, senza l’ausilio della musica, Malcom X.

1973. “C’è un metodo nella follia del pensiero”.
Questo, in sintesi, è il tema dell’album “Fresh”, un trentatregiri che propose ad un pubblico ansioso un altro, nuovo Sylvester Stewart. Fotografato da Richard Avedon, in una celebre e plastica posa funky, costo dello scatto all’epoca, 3.000 dollari, Sly Stone presentava, in quell’anno pieno di capovolgimenti nel panorama musicale internazionale, un disco fuori da qualsiasi logica. “If you want me to stay” canta l’artista nel secondo brano dell’album quasi a voler sfidare il pubblico disorientato sin dalle prime battute; un brano equilibrato a fronte di un personaggio (Sly in persona) assolutamente squilibrato. Il punto più alto della creatività (“There’s a riot going on”) è passato, e, ora, del genio vediamo solo la squisita capacità di scrivere canzoni funky come forse mai nessuno prima era riuscito a fare.
Genio che afferma la propria smoderata presunzione in “let me have it all” - “fammi avere tutto per scegliere il meglio della vita senza alcun imbarazzo” - ma che ha lasciato dietro sé quell’impegno per cui la gente del suo stesso colore lo aveva scelto.
A tanti anni di distanza l’imbarazzo dell’ascoltatore attento non si è ancora sopito: Sly è prendere o lasciare, senza mezze misure. “Fresh “ e, da questo punto di vista, un album irritantemente riuscito. Sylvester Stewart gioca con la musica, con il suo portafogli, con il suo naso, con l’amore e con il pubblico. In una cosiddetta “zona a rischio” sposta il peso della musica, affronta territori che non sono delineati su alcuna mappa musicale di quel 1973.

Passata l’epoca del suono Stax e, ancor prima, la sbornia “Motown”, etichetta in quegli anni impegnata a rimodellare se stessa attraverso il singolo artista, Sly Stone intuisce che se la spinta della sua musica lo aveva portato in alto nei tardi anni sessanta per poi incoronarlo con “There’s a riot going on”, sarebbe bastato spiazzare tutti per ottenere un ulteriore risultato positivo. Questo è ciò che accade con “Fresh” nonostante ancora ci attanagli il dubbio che già molto avanzata fosse in quei mesi, l’incapacità di intendere e di volere del leader dei Family Stone. “Mia madre mi ha dato una canzone e mi ha detto figlio cantala e fai che sia una cosa graziosa perché la gente si ricordi dove ci troviamo ora / Tu, rendi felice tuo padre e a tua madre tutto questo piacerà e tu saprai quale sarà la mia riconoscenza / sempre con il pensiero verso il Signore” (“thankful and thoughtful”).
Vita quotidiana, ringraziamento spirituale, coscienza della propria posizione all’interno della società urbana nera sono ancora i temi di Sly ma siamo, inequivocabilmente, sul versante incrinato: nella voce dell’artista c’è una smorfia, un “disguise”, e tutto pare così lontano e fuori fuoco. Sì, una parola può bastare, i dischi comunicano questo!, ma qualcosa non funziona più.
Stone parla di pelle, della sua pelle (“Skin I’m in”) per ritrovare il proprio posto fra i fratelli ma, un po’ per la genialità della proposta, un po’ per l’inibizione che il successo provoca, “Fresh” resterà l’ultimo album della sua carriera a raccogliere vasti consensi e risultati un po’ ovunque. Canta Sly quasi a voler giustificare gli avvenimenti degli ultimi anni: “Se potessi fare tutto nuovamente da capo mi ritroverei nella stessa pelle in cui mi trovo ora / Gli abiti che indosso, le cose che mi fanno fare per forza, i posti dove mi fanno andare, la gente che devo conoscere, le cose che io vorrei raggiungere.... Qualche volta mi accorgo che sta piovendo sopra di me e la pelle resta sempre questa e che ci sona une cose che non potrò mai ottenere né vincere” (“Skin I’m in”).
Verità o menzogna? giustificazione o riflessione su una vita vissuta sempre in corsia di sorpasso? Non c’è risposta ma qualunque sia il messaggio, colpisce ancora la compostezza della ricerca musicale che esplode in dinamiche inusitate, che fanno gridare al miracolo o, indistintamente, all’olocausto, in forme sonore e di scrittura che non hanno grandi, né tantomeno, famosi, precedenti.
A voler ricordar bene tutto il disco non bisogna dimenticare che Sylvester Stewart sceglie un brano come ideale “sponsor” del disco di “Fresh”. È una ballad del 1955 “Que sera sera”. Che cosa c’entra questa canzone con Sly, si chiese all’epoca qualcuno? Ma la risposta è nel pianoforte sottilmente blues, nella cadenza nera, nei cori gospel contrappuntati dall’organo leggermente “pastorale” del sottofondo. Così, d’incanto, il leader apre le porte alla sua Family Stone che mette in moto un lento e lascivo groove strumentale di 12 battute che pare non andare da nessuna parte, eppur si muove!
È un piccolo miracolo questo ,”Fresh”: lancia la strada a Prince per il decennio successivo e reinventa il funky , proprio quando la tentazione di deviare e diventare “disco” bussa forte alle porte. Un miracolo -dicevamo - ma anche la determinazione di voler infrangere qualsiasi barriera con spontaneità per un risultato che suona ancora oggi “Fresh”.
Nel frattempo,i risultati dell’album avevano convinto lo establishment discografico che Sly era ancora un grande artista nonostante le sue bizzarrie. Il conflitto fra artista e casa discografica era, per tutto il 1972, cresciuto a dismisura e il disco del 1973 era giunto a calmare le acque, “ In time ” come recitava il titolo di lavorazione di “Fresh”. Il recensore Richard Williams del settimanale britannico Melody Makers scrive: “Se già riconoscete Sly come un innovatore non c’è motivo di raccomandarvi quest’album, in caso contrario affrettatevi”, mentre 10.000 anime si accalcavano ad applaudirlo nel vecchio stadio di White City per l’unico (e ultimo) concerto britannico.

Da quel luglio 1973 al suo successivo album, “Small talk” del luglio 1974, Sly fece letteralmente perdere le tracce se non fosse stato per un sontuoso matrimonio con Kathy Silva dinanzi a 20.000 persone paganti prima del concerto al Madison Square Garden il 5 giugno dello stesso anno. Il comportamento di Sly Stone cominciava a spiazzare molte persone e il gruppo, che negli ultimi 18 mesi aveva incluso il bravo batterista di studio Andy Newark, era sulla strada dello scioglimento. Qualcuno cominciava ad accorgersi di quanto blanda stesse diventando negli anni la proposta musicale di Sylvester Stewart. Primo fra tutti, Nick Kent, una delle penne più taglienti del giornalismo d’oltremanica che scriveva: “In “Small talk” Sly non ha letteralmente niente da dire e pretende che agli ascoltatori sia sufficiente la sua presenza per giustificare la validità del disco...”.
Improvvisamente il mondo di denuncia, di onore, di presenza sociale e costanza veniva meno. La moglie Kathy Silva chiese il divorzio nel mese di ottobre e nel novembre dello stesso anno, si presentava con i suoi “Central Station” Larry Graham, bassista dei primi anni e figura chiave dei “classici” Family Stone. Con i suoi ritmi dei primi due album avrebbe rimpiazzato e sostituito l’imprimatur musicale di Sly che nella tarda primavera del 1975 suscitò ben poco interesse nel pubblico newyorkese del Radio City Hall trovandosi, così, costretto a cancellare numerose serate presso il prestigioso teatro cittadino. L’album “High on you” dell’ottobre di quell’anno a malapena tenne testa a “Release yourself” di Larry Graham e dei Central Station, secondo album del bassista su citato, mentre, dello stesso, il successivo “Ain’t no ‘bout-a-doubt ondblquote surclassò decisamente qualsiasi altra uscita di Sly Stone, ora senza la dicitura “and the Family Stone”.
Non solo Sly era cambiato, ma qualcosa andava offuscandosi in lui e, soprattutto, l’avvento di artisti e progetti quali il P Funk di George Clinton, portavano gli ascoltatori a considerare vecchi e obsoleti i messaggi di Sly.

Nel gennaio 1976 Sly dichiarò bancarotta mentre i report del magazine “Jet” lo davano per “disperso”. Un tentativo di riapparire, a ricordar bene, ci fu: con un disco dal titolo che la diceva lunga sulla propria situazione “heard ya missed me, well I’m back” e, nonostante che alla Epic, sua etichetta di sempre, tentavano di riesumare il nome “and the
Family Stone” del gruppo erano rimasti solo la sorella Rosie Stone e il trombettista Jerry Martini. A proposito dell’album l’impressione che ancora se ne trae è quella di un disco composto con il pilota automatico (come nel brano “Family again”) e la presenza del tecnico Roger Dollarhide (“un junkie”, lo descrive il trombettista Martini) non favorì le condizioni psichiche di Sylvester Stewart. In piena era “disco” Sly pareva un ciarlatano. Qualcuno, intanto, pensava lo fosse, a questo punto, veramente diventato! La Epic si decise a concludere un contratto che si trascinava oramai stancamente. Nick Kent, con tono elegiaco scriveva nel 1978 “...Era vicino come nessuno lo era stato al suono della strada, almeno quanto Bob Marley in “Rastaman vibration” ma si è fatto fottere dalle sue narcisistiche intuizioni ed ecco quel che resta”.

Sly riappare nell’ottobre 1979, su etichetta Warner brothers con “On the right tracks” un album anticipato da un grande battage pubblicitario. Ma l’album fallisce ancora miseramente; Dave Marsh, su Rolling Stone, ne parla con sensitività e intelligenza: “io continuerò ad ascoltare la musica di Sly, nella speranza che questo grande musicista possa ritrovarsi. C’è qualcosa di positivo in un musicista del suo calibro che va contro corrente e produce un album al di fuori di tutto quello che è record business. Ci trovo qualcosa di molto vivo”. Ma Sly, nonostante le parole di Marsh, sta combattendo, ormai, il proprio passato come in “The same thing (that makes you laugh makes you cry)” o “Who’s to say”. Un passato pesante che riappare nella musica di altri come, ad esempio, in quella di George Clinton assieme al quale coalizza per l’album di quest’ ultimo “The electric Spanking of war babies” un album che non avrebbe visto la luce fino al 1981 per motivi contrattuali del “primo ministro del Funk” con la stessa Warner bros. Clinton, di tre anni più anziano di Sly, non si poteva dire influenzato da Sly ma ne aveva, a pieno titolo, ereditato quella potenza sociale dell”’everyday people” che aveva dato credibilità a Sly presso il popolo della gente nera. E George stava tentando di aiutare Sly Stone come poteva ma, a causa del grande sforzo economico degli anni settanta con il progetto Parliament P Funk, era, lui stesso, in difficoltà. Portò l’artista con sé in tour e Sly apparve su “Urban Dancefloor guerrilla” del 1983. Inoltre, nella collezione “George Clinton and family pt. 1” appare un provino dei due nel 1981 intitolato “Who in the Funk do you think you rare’ .

Intanto nello stesso anno (1981) Sly viene arrestato per possesso di cocaina (in seguito scagionato). mentre con lento incedere assieme al produttore Stewart Levine si appresta a terminare il suo ultimo album per la Warner bros: “Ain’t but the one way”. Ricorda il produttore: “L’album miscela il mio lavoro e il suo. Mi disse un giorno ‘io improvviso e tu devi tirare fuori il lavoro concluso.”
Levine convocò tre membri del gruppo originale per terminare le idee di Sly che era, intanto, nuovamente scomparso.

Il 1983 e il 1984 furono anni di grande agonia per Sly: ancora guai con la legge per droga e armi. Affrontò un programma di riabilitazione in 16 parti. Partecipò a due dischi di Bobby Womack, che era a suo tempo, apparso in “There’s a riot going on”, “The Poet” and “The Poet II”. Ma un album dei due musicisti non si realizzò mai...
Un giornalista del mensile SPIN raccontò IL difficile momento di Sly nel numero di dicembre 1985 in un lungo articolo intitolato “heart of darkness”. L’articolo parlava anche di un probabile contratto con l’etichetta A+M. L’indicazione era giusta: nel dicembre 1985 Sly è ospite del chitarrista Jesse Johnson (già nel gruppo di Minneapolis “The Time” e valletto di Prince in più circostanze (il brano si intitola “Crazy”). Nel 1987 produce un singolo “Eek-a-Bo-static” che non ha successo e duetta con Martha Davis, ex cantante del gruppo californiano “The Motels” nel brano “Love and the affection” dalla colonna sonora del film “Soul man”. Questa è, ad oggi, la sua ultima registrazione in studio. Nel 1987 Sly riunì il gruppo originario per uno speciale della televisione via cavo HBO girato nella vecchia sala Fillmore a San Francisco con Buddy Miles ospite speciale tv del gruppo. Il bassista Larry Graham decise all’ultimo momento di rifiutare l’invito del gruppo che suonò “Dance to the music”, “I want to take you higher” e “Thank you (fallettinme be mice elf agir)”. Uno speciale televisivo definito da molti “di grande valore musicale e di grande potenza funk. Un annunciato album con George Clinton (se ne parla dal 1979) non vide mai la luce.
Il manager di Sly di quei giorni, Jerry Goldstein presidente della defunta Avenue Records di Los Angeles, parlò di un disco “in via di preparazione -afferma- sarà realizzato tutto dal vivo in studio come ai vecchi tempi”.
Poi, il silenzio, fino all’edizione 2006 dei Grammy della musica alla Rock & roll Hall of Fame e la notizia di un nuovo album con la “famiglia”, quella vera.

Il trombettista Jerry Martini dice “Sly è stato la persona che ha portato il colore viola nella musica, Prince ha copiato molto da Sly e molti sono quelli influenzati da lui: Rick James, Bootsy Collins, anche James Brown. Noi siamo stati il primo gruppo integrato d’America, abbiamo fatto il tutto esaurito al Madison Square Garden per 13 volte, abbiamo fondato il suono del pop nero di oggi. Riuscimmo prima di chiunque altro a fondere testi di un certo spessore con una musica solida, reale, veri ritmi di batteria e contrappunti di fiati. Dopo, per tutti gli altri ogni cosa è stata più semplice...”.

Ernesto de Pascale

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