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John Hammond: Wicked grin


Attenzione!
Wicked Grin”, il 27 esimo album di John Hammond Jr., newyorchese, figlio del più influente produttore della Columbia fra gli anni trenta agli ottanta (la sua prima scoperta fu Bessie Smith, l’ultima Steve Ray Vaughan) è un disco pericoloso, non adatto né consigliabile ai troppi giovani con dentro canzoni sporche che sanno di grasso per macchina, sudate, puzzolenti come un carcerato in fuga, sciacquate sulle rive fangose del Mississippi e suonate da una pattuglia di manigoldi che non ha pari nel resto d’America.
Capeggiati da Hammond, uno che di delta blues, chitarre con resonatori, crocevia dove darsi appuntamenti con il diavolo e altre offerte in sconto ne sa qualcosa, “Wicked Grin” si distacca dagli album precedenti del nostro – tutti immancabili per il recensore! – perchè è costituito nella sua completezza - tredici brani per un totale di 55 minuti - solo da canzoni di Tom Waits. Questo particolare rende il disco merce che scotta, in grado di sciogliere un lettore cd se non ci si accosta secondo certi rituali:si abbassino perciò le luci, si giri nulla facendo per la casa per una settimana circa senza lavarsi nè tagliarsi la barba,si faccia in modo che l’atmosfera dell camera dove ascoltate sia molto umida, spegnete il condizionatore,mettetevi in mutande e canottiera e se volete un po' di fresco aprite il frigorifero!. Solo a quel punto fate partire a tutto volume “2.19” e lasciate che il “grigno satanico” di Hammond faccia il resto. E’ da lì, fra armoniche a pieni polmoni del sornione Charlie Musselwhite e un organino Farfisa suonato dal vetusto Augie Meyers che pare uscito dritto dritto dalla sceneggiatura de “La Rabbia Giovane” con Charlie Sheen e Cissy Spacek, che questa Armata Brancaleone parte per il suo caravanserraglio.
Scoprirete così che “Wicked Grin” è il viaggio quotidiano nelle backroads polverose di questo mondo e questa imprevista quotidianità vi potrebbe far vibrare fino alla ultima nota chiedendo pietà e urlando per averne di più. Sì!, una catarsi non molto distante da quella che vivemmo nelle notti fiorentine di Tom Waits nel luglio 1999 e che da quelle sere ci ha visto chiederne ancora un po', appunto.
Si compiono sporchi giri di pista fra i solchi immaginari di questo cd, si ride, si piange e ci si arrabatta fra quelle storie così lontane che qualcuno vorrebbe così vicine. Insomma, si vive una vita di frontiera dove, anche lì, “non si sà dove si và, ma ci si và” ma lo si fa a testa alta, aspettando che la ruota si fermi e ti dica che finalmente è toccato a te ( come in “The Money Runs Out”) e che solo dopo averla bevuta puoi indagare il fondo della bottiglia (“Jockey Full of Burboun”).
E in questo film sonoro John, sotto la guida di Tom, si fa accompagnare nella sua marcia verso il futuro da gente adulta che quando c’è d sbagliare lo fa da professionista. Musi duri come il bassista dei Canned Heat Larry Taylor o come il percussionista Stephen Hodges più i precedentemente citati.
Da questa orgia di sudore e lacrime, di croce e delizia, di miseria e nobiltà si alza il solenne canto blues che gente come Waits e Hammond hanno traghettato da un milennio all’altro, licenziandoci un disco pieno di rischi che sintetizza quel conceto di “perfect imperfection” che è proprio l’anima del Blues.

Ernesto De Pascale

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