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JAMES BROWN - Live at the Apollo, volume II


Il nome di James Brown è legato indelebilmente a quello dello storico Apollo Theatre di Harlem. Tre fra i suoi più famosi album sono stati registrati dal vivo proprio lì(nel 1963,nel 1967 e nel 1971 rispettivamente). E uno di essi, il secondo, del 1967, viene oggi riproposto in doppio cd(Universal) con 30 minuti di musica aggiunta e ristaurato secondo la sequenza originale, disastrata dalle necessità restrittive della stampa su vinile alla prima pubblicazione del disco (tardo 1968). È questa una ristampa attesa dai fans del grande James Brown e rivelatrice per chi conosce l’artista attraverso la mitologia della black music o attraverso le decine di “sample” che Brown ha fornito alle più recenti tendenze della musica da ballo. Prima di ogni altra cosa,però, “Live at the Apollo, volume II” è la fotografia su una America nera, musicale e non, in profonda mutazione.

Nel 1967 James Brown era “Soul Brother number one” e “the hardest working man in the show business” già da un pò: aveva oliato e messo a punto una macchina musicale” da guerra” specializzata in una forma primordiale di musica funky che da lì a pochi anni avrebbe invaso il mondo e fatto proseliti ovunque, il suo stile era il perfetto contraltare a quello sensuale di Otis Redding e di tutti gli interpreti soul della Stax records di Memphis e ben lontano dall’approccio annacquato del rythm & blues che la Motown records di Detroit proponeva.

James Brown rappresentava il simbolo dell’orgoglio nero che si misurava con la società bianca americana della seconda metà degli anni sessanta; un ruolo difficile, questo, che Brown seppe gestire con grande capacità e senso di responsabilità. Il suo inno “Say loud, i’m black & i’m proud” da lì a pochi mesi avrebbe assunto un significato particolare con la morte di Martin Luther King, mentre la eco degli scontri nel quartiere nero di Watt a Los Angeles nel tardo 1966 non si erano ancora sopiti. Era insomma, importante per James Brown non solo essere “il fratello dell’anima numero uno” ma mantenere quella valorosa condotta che lo ha caratterizzato perfino nei suoi momenti peggiori, perfino quando negli anni novanta venne imprigionato per molestie alla moglie!

Nel giugno 1967, sulla scia del successo di “Cold Sweat” e “let yourself go” e reduce da una interminabile sequenza di esibizioni James Brown e i suoi Famous Flames approdano ad Harlem con la loro revue per ben dieci sere con la seria intenzione di fermare su nastro uno spettacolo che, come James Brown stesso tenne a dire, “cambiava ogni sei mesi...perchè la gente si merita sempre qualcosa di differente e iovoglio i miei musicisti sempre impegnati in qualche nuova esperienza…”. Naturalmente un nuovo spettacolo significava per James Brown un dispendio di energie incredibile: non bastava cantare, ballare, comporre i brani e arrangiarli ma c’erano poi quegli immacabili interludi come batterista e organista che accadevano nel corso dello show quando meno te lo aspettavi!

Brown non poteva avere band migliore al suo seguito:questa edizione dei Famous Flames era stata unita per ben nove mesi (un tempo lunghissimo per una revue di musica nera!) e vedeva Alfred “Pee Wee” Ellis nel ruolo di sassofonista e direttore musicale mentre recente era stato il reinserimento di Maceo Parker al sax alto dopo la ferma militare. La sezione ritmica vedeva schierata due dei più grandi chiatarristi ritmici della musica americana in generale: Jimmy “Chunk” Nolen e Alfonzo Kellum, dai ritmi imprevedibili e implacabili come metronomi.Dietro i tamburi sedevano “il rineggato funkattiere”,Clyde Stubblefield e “il maestro dello shuffle “Jabo Starks aumenattai, in questa formazione dalle congas e dalle tumbe di Ron Selico che sono vere e proprie turbine in brani come “Kansas City” e “please,please, please”, Bobby Bird e Bobby Bennett erano i contraltari vocali di Brown, entrambi assolutamente unici e il primo maestro di vita del nostro. Il secondo, Bennett, per inciso, era anche il parrucchiere di Mr.Brown !Una sezione di tre violini e tre ballerine aumentavano i componenti del gruppo a ben 21 mentre 23 erano gli accompagnatori della tournee in corso in quel giugno 1967.

In “Live at the Apolo, volume II” James Brown e i suoi Famous Flames scrivono una personale appendice a quel “Dictionary of Soul” che Redding aveva stilato e pubblicato come disco nel tardo 1966. Affermano che i tempi sono cambiati e il Vietnam,l’estate dell’amore, la rivoluzione dello stile e del pensiero e molto altro ancora appartengono anche al popolo dei neri d’America senza nessuna seconda considerazione “alta”. Brown e i suoi uomini riportano “a terra” teoerie e discorsi “alti” e li calano nella zuppa bollente di un funk selvaggio che si è costruito nei locali malfati del sud e nei ghetti di tante città .

Brown compie questa operazione con la classe del Re illuminato e con un occhio di rispetto verso una America che non lo desiderava (e come lui stesso ha più volte detto “…ve ne è sempre stata una e sempre ve ne sarà”) pigiando forte l’accelleratore su quel concetto di intrattenimento che l’artista della Georgia userà per tutta la sua lunga carriera per convertire chiunque, anche gli atei del soul! E da “It’s man’s man’s man’s world” lunga bel venti minuti a vecchio classico “Prisoner of love” attraverso tutti, sottolineiamo tutti, i generi che una revue può suonare, James Brown si lancia in un finale da infarto con un breve accenno a “(I got you) i feel good” per terminare con una “please,please, please” intensissima dove fra inchini, mantelli dorati e pianti e sudori James Brown si allontana dal teatro Apollo con un ghigno sulle labbra, quello del conquistatore che è stato incoronato dalla sua gente.


Ernesto De Pascale

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