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Robert Plant Dreamland
Mercury/Universal
Un disco costituito quasi interamente da cover, realizzato da un artista che ha firmato lultimo disco a proprio nome ben nove anni fa. Guardando la cosa con un pizzico di cinismo, non è proprio la ricetta ideale per gridare al miracolo, e anzi fa venire il sospetto di obblighi contrattuali da rispettare e vari spettri che con la musica hanno poco a che vedere.
La verità è che Robert Plant voleva realizzare questo album da molti anni, forse da tre decenni se si pensa al repertorio che cantava prima di ritrovarsi nei Led Zeppelin. La prova di questa considerazione coincide anche col momento più alto della raccolta, quella Morning Dew scritta da Tim Rose, folk singer del leggendario Greenwich Village di metà anni60, omaggiata con una struggente versione che rende pieno merito al suo genio. Pare che Plant la cantasse con la Band of Joy, gruppo che aveva formato quasi per scherzo insieme allamico John Bonham, e ben prima che fosse ripresa da Jeff Beck e Grateful Dead.
Oltre a queste gemme vagamente oscure (unaltra è Skips Song, dei grandissimi Moby Grape), il vecchio Percy dimostra di non aver paura nel prendere per mano canzoni che fanno parte della storia, come la temibile Song For The Siren, pezzo di Tim Buckley che per qualche strano caso è già stato splendidamente rubato dai This Mortal Coil, o addirittura Hey Joe, già resa ultrafamosa da Jimi Hendrix (nel suo piccolo, anche da Tim Rose) e qui accentuata nelle sue caratteristiche di blues psichedelico e dissonante.
La bella notizia è che Plant ne esce quasi sempre vincitore, dopotutto la sua voce è invecchiata bene e conosce alla perfezione i pezzi che sta cantando, così come conosce i suoi compagni di viaggio, gli Strange Sensation, una strana band formata da vari sessionmen che qua e là nel corso dellultimo ventennio hanno prestato i loro strumenti anche a Cure, Massive Attack e Portishead. Insieme a loro firma pure due buoni pezzi nuovi, Red Dress e Last Time I Saw Her, e alcune riletture di classici del blues del Delta, fra cui brilla lindolente e sensuale Win My Train Fare Home (If I Ever Get Lucky, con tante grazie a Robert Johnson, John Lee Hooker e Albert Crudup.
Passata la fama planetaria dei Led Zeppelin, passati i tempi in cui il Plant solista cercava invano di ricatturare quel successo formidabile, passato pure il ritorno di fiamma col vecchio compagno Jimmy Page, Dreamland arriva a consegnarci un interprete ormai consapevole del proprio ruolo, protagonista di un lavoro rilassato e idealmente collegabile a Led Zeppelin III, una celebrazione della giovinezza perduta che non scade nel nostalgismo patetico, e il cui maggior pregio è di non voler neanche provare a forzare la mano. In un panorama musicale che mai come oggi si è trovato ad esaltare la novità ad ogni costo, regalando ai dischi una vita media di 15 minuti, la scelta di soffermarsi su una manciata di canzoni così belle e senza tempo è segno inequivocabile della volontà di invecchiare con classe.
Bernardo Cioci
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