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Scott Walker: Five Easy Pieces
(Universal/Mercury)

È uscito da pochissimo, ma soltanto in Gran Bretagna, Five Easy Pieces, cofanetto di cinque cd dedicato all'opera di Scott Walker. Per inquadrare Walker entro un ambito strettamente attuale, basterebbe immaginare Robbie Williams che, invece di diventare una star di livello planetario, lascia i Take That e inizia a scrivere album solisti densi di rimandi alla morte e al comunismo. Ovviamente perdendo ogni volta manciate di pubblico, e senza preoccuparsi minimamente di porre rimedio all'emorragia di consensi. Accadde più o meno questo al californiano Scott Engel, Walker solo in arte, che dai lustrini pop dei Walker Brothers (che non erano fratelli e non erano neanche inglesi ma si imposero come proto-boy band e forza commerciale di un certo livello nell'Inghilterra contemporanea ai Beatles) si mosse verso una direzione sempre più enigmatica ed insulare, fino a trasformare la propria carriera in un segreto riservato a collezionisti ed addetti ai lavori.
A posteriori è facile intuire che, per un animo tormentato come il suo, la gabbia dei Walker Brothers non sarebbe durata a lungo. I loro successi erano tutte cover, molte firmate da Burt Bacharach, ma quando Scott era messo in condizione di scrivere dimostrava che anche il pop più zuccherato poteva essere piegato per descrivere i propri tormenti interiori, e senza troppi compromessi. Logico quindi che la vita di idoletto per teenager non gli si addicesse per niente, complice anche una sussurrata paura da palcoscenico che, ma siamo sempre nel regno dei si dice, gli valse una potente dipendenza da alcool e la fama di depresso cronico. Nel 1967 arrivò l'inevitabile dissoluzione del gruppo, del resto le mode stavano cambiando e le popstar carine lasciavano il passo ad idee e materiale di ben altra caratura. Scott si cucì subito addosso le vesti di cantautore, pubblicando in rapida successione quattro dischi con poca fantasia nei titoli (Scott, Scott 2, Scott 3 e Scott 4) ma parecchia personalità dove conta, ovvero fra i solchi del vinile. Nume tutelare quello di Jacques Brel, omaggiato proprio su Scott con una grande cover di Amsterdam e presenza stabile anche in Scott 2 e 3, così come lo stile di crooners come Frank Sinatra e Tony Bennett, ovvero la conferma palese che il mondo del rock non esercitava alcun interesse su quell'americano trapiantato a Londra. In definitiva Walker aveva trovato uno stile estremamente personale, innestandolo su di un cantato ora drammatico ora leggero, e pronto a declamare liriche tanto introspettive da risultare scioccanti. Cosa avranno pensato, ad esempio, i genitori del '67, quando sul giradischi di casa risuonava un pezzo come My Death? Nonostante questo, Scott riuscì a scavarsi una nicchia abbastanza larga, almeno all'inizio, tant'è che Scott 2 arrivò addirittura al numero uno delle classifiche inglesi. Una fortuna comunque destinata a durare poco, perché Scott 4, suo trionfo artistico e primo disco composto da materiale interamente originale, si rivelò un flop, relegandolo per sempre ai margini estremi dell'industria discografica. Ed era appena il 1969. Iniziò una discesa fatta di dischi deboli (il pomposo Til the Band Comes In, immediato successore di Scott 4, concepito come ritorno a temi e melodie più accessibili, fu in pratica il chiodo finale sulla bara del suo successo commerciale) e una sfortunata ma interessante riunione dei Walker Brothers nel 1975. Da qui in poi, la progressiva sparizione, interrotta soltanto da una triade fra le più strane nella storia della musica pop: Climate of Hunter nel 1984, Tilt nel 1995 e la colonna sonora Pola X nel 1999, che può vantare contributi scritti da Smog (!) e Sonic Youth (!!).

È chiaro che riunire in un box una carriera così sfaccettata sia tutt'altro che facile, e per farlo è stato chiamato Cally Calomon, grande amante delle canzoni di Scott con un passato da manager di Julian Cope e Matt Johnson dei The The, attualmente al controllo delle pubblicazioni postume di Nick Drake. Le scarne informazioni allegate ai cd per la stampa (ma sembra che l'edizione ufficiale contenga delle note molto ampie) mettono le mani avanti: Five Easy Pieces è un cofanetto pensato per introdurre la figura di Walker all'ascoltatore generico, non per soddisfare il completista fanatico, che dovrà altresì continuare a bazzicare il mercato dei vinili usati. Rimangono ben custodite nel cassetto qualsiasi demo, outtake o pezzo inedito. Solo una retrospettiva, dunque, pensata per raccogliere i migliori momenti di un cantautore estremamente elusivo, che nel marasma della discografia moderna può soltanto ambire allo status di culto ristrettissimo ed assolutamente fuori dalla portata delle giovani generazioni. A dire il vero Walker è sempre stato una specie di artista degli artisti, almeno se si considerano gli ultimi vent'anni, citato nelle interviste come nella musica, cosa che ha sempre fatto discutere della sua influenza sul pop inglese contemporaneo. Anche recente: Neil Hannon dei Divine Comedy ne è una specie di replica in formato anni 90, gli Suede di The Wild Ones lo citano pedissequamente, senza però possederne la stessa visionarietà e coraggio, ed anche le vignette tratteggiate dai Pulp gli sono sempre state debitrici (a tal punto da tirarlo fuori dall'esilio per la produzione dell'ottimo We Love Life, nel 2001). Una lista che è parecchio lunga e va anche indietro nel tempo, basta ascoltare la funerea Archangel e di colpo si capisce che la voce di David Sylvian ha sgraffignato parecchio da qui. Pure Morrissey, uno che ha dedicato tutta la sua vita a frugare nelle pieghe oscure del pop inglese, quasi ai limiti del nazionalismo, e che come Walker è riuscito ad impiantare temi disturbanti entro canzoni di tre minuti, non può essere rimasto insensibile al fascino di Scott 4 o Scott 2. Senza dimenticarsi di due fan dichiarati, Bryan Ferry e David Bowie, accesi sostenitori anche durante il periodo buio degli anni '70.

Tornando al cofanetto, è chiaro che un criterio più filologico sarebbe stato apprezzabile. Probabilmente sarebbe stata l'opzione preferita anche da Calomon, ma l'impossibilità di presentare l'opera omnia, per la quale ci sarebbero voluti almeno tre o quattro cd in più, ha imposto un criterio di selezione basato su cinque temi portanti, uno per ogni disco. Abbiamo così due cd un po' confusionari ma spesso brillanti: il primo, In My Room, vorrebbe radunare i quadretti più minuziosi scritti da Walker, piccoli mondi visti dalla camera da letto, e nonostante tutto riesce a presentare almeno tre momenti altissimi (Hero of the War, acidula e commossa canzone contro la guerra, per chi scrive il suo più bel pezzo, Archangel, prodromo di tanto goth che arriverà decadi dopo, e la dimenticata After the Lights Go Out, ovvero un pezzo per cui i Belle & Sebastian ucciderebbero volentieri). Il secondo, An American in Europe, cerca di mettere a confronto l'anima americana di Scott con i suoi sogni europei, e quindi passa in rassegna il Brel dei primi dischi solisti (lasciando fuori, ingiustamente, Funeral Tango), qualche episodio dei Walker Brothers, per rifugiarsi in canzoni grandiose come Copenaghen e Rhymes of Goodbye, testimonianze di un'ormai completa maturazione stilistica. Si prosegue con Where's The Girl?, che raccoglie solo canzoni dedicate ad altrettante donne, e francamente è il meno interessante della raccolta, poi Scott on Screen, sul Walker raffinato cinefilo, che primo fra tutti cita Morricone in The Rope and the Colt e addirittura Bergman in The Seventh Seal, e infine This Is How You Disappear, incentrato sulla lunga trasformazione da idolo pop ad avanguardista recluso. Quest'ultimo è senz'altro il più illuminante fra i cinque, perché rovista nel periodo meno documentato. Alcune inclusioni sono davvero brillanti, soprattutto pezzi oscuri come Electrician, del '78, singolo che anticipa di almeno 5 anni la new-wave più romantica e sognante, o i numerosi brani tratti da Climate of Hunter, un album stranissimo, fatto di sintetizzatori misti a barocchismi vocali, con cui Walker si infilò senza fortuna nel calderone 80s. Senza contare la discesa agli inferi di Tilt, qui rappresentato con quattro selezioni, un delirio di dissonanza e tappeti industriali, sotto un cantato portato a livelli di intensità quasi insostenibile. Tilt è un vero e proprio moloch dell'opera walkeriana, summa ma anche caricatura di tutte le paure disseminate in trent'anni di canzoni, e disco che a suo tempo piombò sulla critica incredula come il più affamato dei rapaci.

Il giudizio finale su Five Easy Pieces è combattuto. E' un'opera lodevole, con cui si cerca di ridare visibilità ad un nome sfortuatamente noto più in quanto tale che come autore, anche se la sua pubblicazione esclusivamente inglese costringerà gli appassionati italiani a ricorrere ad internet o al costoso mercato d'importazione. Ma ci sono anche note negative, come l'organizzazione nebulosa, che rende il tutto frammentario, saltando con troppa disinvoltura da episodi solisti ai Walker Brothers e di nuovo al Walker solista. Inoltre le assenze importanti sono parecchie, e impediscono di avere un quadro d'insieme completo della sua tumultuosa carriera. Dov'è l'ottima Young Man Cried, in assoluto la prima canzone recante la firma Engel? Dove sono due dei picchi di Scott 4, The World's Strongest Man e lo pseudo-soul The Old Man's Back Again? E, se la già citata After the Lights Go Out testimonia la volontà di includere qualche chicca dei Walker Brothers non firmata da Scott, perché non è stato incluso anche l'interessante singolo No Regrets, che segnò il ritorno del trio? Questioni di lana caprina, forse, soprattutto se poste di fronte all'ottimo materiale che è arrivato sul prodotto finale, ma che ne spostano di poco la mira. Poteva essere la parola definitiva su Walker, probabilmente sarà per la prossima volta. O forse mai, conoscendolo.

Bernardo Cioci

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