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Johnny Dorelli Swingin’
(Disco Carosello)
Una sera di tanti anni fa (purtroppo per me, troppi per poterli ricordare con precisione), nel teatro di una cittadina di provincia, uno spettacolo a fini benefici con ospite d’onore un artista di grande richiamo, allora all’apice del consenso popolare: Johnny Dorelli.
A un certo punto Johnny, conversando amabilmente con il pubblico, disse che per qualche minuto avrebbe abbandonato il suo abituale repertorio per proporre una canzone americana che a lui piaceva molto.
Appoggiò il microfono sull’asta, prese il basso e fece alcune note introduttive, seguito dal pianista, poi cominciò a cantare “My funny Valentine” e il pubblico, anziché essere disorientato, alla fine tributò alla estemporanea esibizione un lungo e caloroso applauso.
Perché Johnny Dorelli gli standard li aveva nel sangue e li interpretava con una tale naturalezza che chi lo ascoltava li accettava e li metabolizzava senza fatica.
Oggi assistiamo alla riscoperta del repertorio classico nordamericano da parte di giovani cantanti che, ben vengano, lo ripropongono ad altri giovani che lo accettano volentieri e lo apprezzano.
La premessa serve solo per stabilire che, a differenza dei nuovi arrivati, Johnny Dorelli non riscopre un bel niente ma riprende quello che ha sempre saputo, cantandolo da par suo.
Ecco perché in questo disco tutto sembra giusto, a cominciare dalla voce di Johnny, sorprendentemente asciutta e giovanile, aiutata da una invidiabile intonazione e da un grande e istintivo senso dello swing, anche se a volte aiutato e spinto con compiacente veemenza, facendo elegantemente il verso a Sinatra.
E che dire dell’orchestra? Viaggia a mille e macina i begli arrangiamenti, scritti e diretti magistralmente da Gianni Ferrio, che inevitabilmente si rifà alle atmosfere delle grandi orchestre anni ’40 e ’50, ma con competenza e classe, divertendosi qua e là con interventi personali (valga per tutte l’introduzione di “New York, New York”, ironicamente affidata a quattro strumenti differenti anziché alle strausate notine di pianoforte).
Un disco perfetto dunque?
Un paio di appunti andrebbero fatti, cominciando proprio dall’orchestra, che avrebbe meritato un trattamento migliore, a volte sacrificata e quasi infossata dietro la voce.
E poi (con il dovuto rispetto per la canzone, tutto sommato di buona fattura nel suo genere), non si capisce bene cosa c’entri “L’immensità” in questo contesto.
Ragioni commerciali?
Questo disco è commerciale proprio nella misura nella quale non lo è: qui ci sono due che gli “anta” li hanno passati da un po’ ma che sarebbe bene fossero ascoltati soprattutto da quelli che dagli “anta” sono ancora lontani, per sapere che qualcosa di buono e di importante è accaduto anche un bel po’ di tempo fa.
Rinaldo Prandoni
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