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Silver Jews Tanglewood Numbers
Silver Jews Tanglewood Numbers
(Drag City/Wide)
www.dragcity.com/catalog/records/dc297.html
www.weeblackskelf.co.uk/cordsuit
David Berman gets back after a long period of turmoil, with his best record in seven years. The result is countrified rock at his very best.
Era da un po’ che ci mancava, David Berman. Personaggio diviso fra musica e poesia, complesso persino per gli standard dell’indie-rock americano, Berman ha speso un lungo periodo a combattere varie tossicodipendenze ed una brutta depressione che è anche sfociata in un tentato suicidio. Se constatare il momentaccio superato è già un sollievo, rivedere la sigla Silver Jews sulla copertina di un nuovo album è davvero una bella sorpresa. Tanti gli ospiti chiamati a raccolta, fra cui Stephen Malkmus che dei Jews è praticamente un membro aggiunto Will Oldham e la moglie di Brennan, Carrie, che qualcuno vorrebbe addirittura paragonare ad altre salvatrici come June Carter Cash e Katie Brennan. Passata la sbornia acustica di Bright Flight, che a posteriori è da interpretare come la canonica quiete prima di una brutta tempesta, Berman si orienta nuovamente verso il country-rock elettrificato che già animava grandi lavori come American Water e Starlite Walker. Il colpo decisivo lo piazza subito con Punk in the Beerlight, ballata elettrica che sta a metà fra Lou Reed e Jim Croce, ma va detto che lo spettro di Reed emerge qua e là e non sarebbe neanche la prima volta. Il piano di The Farmer’s Hotel in particolare ha un andamento confessionale non distante dai suoi primi album solisti, mentre il riff vibrante di Sometimes a Pony Gets Depressed fa pensare ai Velvet Underground in gita a Nashville. Fortuna però vuole che Berman sia un autore troppo dotato per indulgere in citazioni banali o anche solo in sentimentalismi da sopravvissuto, tant’è che la vena dark propria di un disco del genere si nasconde fra le pieghe della sua ben nota ironia. In più stavolta c’è un diffuso senso di tranquillità, evidentemente amplificato da nuova consapevolezza, che traspare nel country psichedelico The Poor, the Fair, and the Good e in I'm Getting Back Into Getting Into You, o anche nella conclusiva There Is a Place, che sul finale degenera in uno sguaiato punk. Sono gli ultimi secondi dell’album e Berman sembra voler dirci che è un uomo diverso sì, ma in fondo neanche troppo. Speriamo che la sua carriera sia ancora lunga e piena di dischi come questo.
Bernardo Cioci
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