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John Renbourn, Six Bars Jail, Serpiolle (Firenze)
19/09/2009
Avere il privilegio di ascoltare John Renbourn in un piccolo club, gremito, da cento posti, è quasi come vederlo suonare nel salotto della propria casa. Atmosfera intima, calorosissima e un palco piccolo ma con l'aspetto e le luci di un vero palco teatrale sono quanto di meglio si possa desiderare per cogliere fino in fondo l'espressività e la profondità dei tocchi chitarristici e dell'interpretazione di questa colonna indiscussa della storia del folk inglese moderno.
Lui, classe 1944, che ha visto la musica tradizionale aprirsi a nuove frontiere proprio davanti ai suoi occhi e che ha scritto, con gruppi come i Pentangle, pagine indimenticabili della musica acustica inglese, non è più esattamente un ragazzino. Nonostante questo, è ancora agile sulla chitarra ed è tutt'oggi un cantante dotato di carisma e di un bellissimo timbro vocale. Inoltre, per tutti quelli tentati di paragonare le gesta chitarristiche di un Renbourn ventenne, di certo più virtuoso di oggi, con la contemporaneità, John ha in serbo un'arma segreta capace di mettere tutti a tacere. E' una profondità d'espressione immutata e, anzi, forse accresciuta dal trascorrere del tempo, capace di mescolare autorevolezza e sensibilità in un'unica, ammaliante combinazione. Si percepisce nei cantati, nel modo di relazionarsi al pubblico ma anche nel fraseggio semplice e penetrante della sua chitarra, dove a volte anche una sola nota, suonata come si deve, colpisce al cuore molto più di una cascata infinita di virtuosismi. Suona un concerto suddiviso in due set, il primo di quaranta minuti e il secondo di quasi un'ora. Dal palco non manca di ricordare con un filo di commozione uno dei suoi chitarristi preferiti e una delle linee guida nella sua carriera, Davy Graham. Si lancia poi in una toccante versione del brano Angie. Nel ripercorrere i capisaldi della storia della musica folk e blues, non manca di tributare omaggi ad altri artisti. Prendono così vita dalle sue mani e dalla sua chitarra citazioni che vanno da Doc Watson a Getting There di Mose Allison, passando attraverso classici del fingerpicking come Cannonball Rag. Niente altro che Renbourn sul palco, solo una voce e una chitarra capaci di tenere il pubblico con il fiato sospeso per tutta la durata del concerto. E quando si creano queste alchimie, vuol dire che chi ascolta ha veramente la sensazione di ricevere dall'artista qualcosa di speciale. Andando oltre il fascino che si è tentati di subire per il solo fatto di trovarsi di fronte ad un personaggio di questa caratura in una situazione così raccolta, si è trattato veramente di un bel concerto, di quelli a cui, tornando a casa, si continua a pensare per giorni e giorni.
Giulia Nuti
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