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Le etichette sono spesso un artificio per far comprendere, con meno parole possible, di cosa si stia parlando. Con i Kings Go Forth questo sistema non funziona, e non si può nemmeno trovare facile rifugio nella teoria del gruppo dalle molteplici ispirazioni, perchè questi Kings Go Forth hanno un sound personale, forti d’un cantante “Black Wolf”, la cui notorietà sembra non aver sorpassato di molto i city borders di Milwaukee. In effetti, i cantanti sono due: c’è anche il meno famoso Danny Fernandez, molto diverso dal “lupo nero”. C’è qui abbastanza Motown e Philadelphia Sound per esser sulla falsariga di un Rhythm’n’Blues melodico “Don’t Take my shadow” - a cui manca però quel sapore dolciastro, fatto apposta per attirare l’ascoltatore. C’è invece una ritmica terrificante, raddoppiata da un uso costante delle percussioni, fiati a fanfara e grandi parti vocali. “Paradise Lost”, specie di Blues lento con un tocco di Caraibi, il pezzo più piacelvole. Un disco speciale, vicino all’eccellenza. Produce David Byrne. KARL DENSON’S TINY UNIVERSE Il minuscolo universo di Karl Denson è molto più grande di quanto si pensi. Sfugge alle definizioni saltando da un’ispirazione vicina ai Naville Brothers dei tempi di Yellow Moon ai cantautori americani contemporanei. Soul fortemente marcato dal basso elettrico di Meshell Ndegeochello, e nonostante l’uso, peraltro saltuario, dei fiati, della chitarra (Marc Ford qua e là) e dei cori, il groove cresce al freddo, spoglio, senza mai spiegare le ali e decollare. Sembrerà strano, ma questo è il merito di “Brother’s Keeper”, un’opera essenziale che fa risaltare i testi, diretti verso una fratellanza universale. “Shake it out”, “Mighty Rebel” sono tra i pezzi più significativi, ma anche “Where it counts”, batteria, chitarra e voce nel vuoto. Notevole la differenza verso la fine, con atmosfere che si fanno decisamente più commerciali, con la dolcissima “Take it down” che potrebbe esser un classico Tamla Motown. Denson è un artista di categoria superiore, eclettico, sassofonista e flautista, una sorpresa con un disco che tra 20 anni potrebbe esser considerato un classico nel suo genere. LEELA JAMES Leela James potrebbe rapidamente guadagnarsi il grado di bomba sexy se qui non si fosse piuttosto nel campo Hard-Soul che in quello del cinema X. Per bucare lo schermo, vestaglia bianca corta e stivale bianco, non ci sono problemi, e la voce non è da meno, piena e trascinante, da vera reginetta del Soul contemporaneo. La James si getta con slancio nelle rivendicazioni sociali I Want it All voce, batteria e cori dopo un inizio al calor bianco con “I Ain’t new to this” e “So cold”, freddo che solo la James deve sentire perchè l’ascoltatore è tutto un bollore visto che siamo sulla strada di Party all night. Come da tradizione consolidata c’è anche il duetto amoroso Mr. Incredible Ms. Unforgetable parentesi debole di un disco solidissimo, che di veramente notevole ha solo il titolo che potrete rivendere a vostro comodo. Peccato anche per la produzione, a tratti eccessiva, che la James non necessita visti i suoi mezzi. Se nessuno la rovina, Leela James classe 1983, sarà la voce soul dei prossimi 50 anni. THE UNDERBELLY The Underbelly non è una serie televisiva ma un gruppo funk della Cornovaglia portato alla luce dalla trasmissione radiofonica the Craig Charles Funk and Soul Show che va in onda su BBC 6. Inizialmente solo strumentali, sono qui accompagnati, in 3 pezzi, da una cantante australiana, tale Roxie Ray un’unione probabilmente estemporanea per evitare l’etichetta di ennesimo gruppo strumentale, definizione che non porta sventura per un gruppo come gli Underbelly, portatori sani di un groove terrificante: tre sax, doppia chitarra, delle quali una con wha-wha fisso, batteria, percussioni e basso. Riffs fulminanti, bridges disegnati col laser su un tappeto continuo di percussioni e batteria basso nodoso - e assoli brevi, da colpo finale. Insomma, godimento puro per gli amanti del genere Funk con vago sapore movie soundtrack, James Bond nei Caraibi, senza un attimo di pausa, senza respirare. Uno sballo. LEFTIES SOUL CONNECTION Ogni tanto si cerca un disco e magari se ne trova un altro. Così ci siamo imbattuti in questo gruppo europeo, i Lefties Soul Connection, che sono troppo rock per suonare acid jazz, ma rifuggono le facili categorie con un signore all’Hammond tale Alviz parente prossimo di Brian Auger. Ma poi dal rock passano al New Orleans, ai Meters la benedizione di Leo Nocentelli nelle note di copertina non è un caso e si rimane un pò spiazzati. Da parte sua, il groove cresce implacabile e si rimane incollati a questa musica atemporale: Il pezzo “Skimming the Skum” è il loro manifesto, chitarra che tesse, organo che cesella, la ritmica stabilisce le pause. Meglio schivare “Funky Chick” perchè s’agglutina permanentemente alle orecchie con un riff terrificante d’Hammond raddoppiato dal basso. Questa potrebbe esser la risposta olandese a James Taylor. HUGO MENDEZ presents La World Music non è nata ieri e anche in tempi remoti senza Internet, le contaminazioni, talvolta vere invasioni, erano garantite. Negli anni sessanta-settanta, i Caraibi, ma anche Mother Africa divennero una fucina di incredibili musicisti che assorbivano il credo della Soul music, adattandolo al gusto locale. Il DJ Hugo Mendez ha messo insieme vecchie performances di gruppi caraibici, temo nessuno conosciuto, che suonavano Rhythm’n’Blues e Soul. Pezzi classici come “Take the Funky Feeling”, “Cissy Strut”, “New Bag”, ricevono una mano di sound caraibico con effetti energizzanti congas, Timbales, chitarre wha-whate - e assoli al calor bianco. Il fatto che questi pezzi siano stati riversati tali e quali da qui un missaggio approssimativo - aggiunge fascino all’operazione. Qualche audace studioso potrebbe fare una ricerca per sapere dove sono finiti questi straordinari musicisti, ma soprattutto se qualcuno è ancora operativo.
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