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Bert Jansch interview
Intervista a Bert Jansch
Ernesto de Pascale: Nelle note del tuo ultimo album parli dell'umanità. Il titolo “Black Swan” fa forse riferimento al tuo rapprto con il mondo esterno?
Bert Jansch: Black Swan è la storia di una navicella spaziale che si muove attraverso l’universo continuamente. Ma Cigno Nero è anche il nome di un Pub. Potrebbero anche essere la stessa cosa dato che anche in un Pub la gente entra ed esce continuamente.
Edp: Negli ultimi sei anni hai registrato 3 album con molte nuove composizioni, il che significa che hai ancora la forza e la volontà di scrivere materiale originale dando dimostrazione di alta creatività. Che non è così naturale come tutti gli ascoltatori possono pensare, quarant’anni di scrittura di brani originali. Che cosa ti spinge a farlo? Hai una “riserva” compositiva da cui attingi ? Le canzoni nascono velocemente?
BJ: Molte volte dipende dalla natura delle canzoni. Le idee di alcune canzoni sono dentro la mia testa ma spesso è difficile concretizzarle all’esterno, cambiano forma. Altre invece risalgono agli anni dei Pentangle e la stessa Black Swan risale ai primi tempi della mia professione di artista folk, è la terza volta che la riarrangio. Generlamente comunque le canzoni nascono velocemente.
EdP: Questo album è prevalentamente acustico. Negli album precedenti come “Crimson Moon” o “Edge of a Dream” c’erano dei contributi elettrici, o la collaborazione con musicisti più giovani come Bernard Butler alla chitarra. Questo album rappresenta più genuinamente “te stesso”. Puoi dirmi qualcosa a riguardo?
BJ: C’é Paul Wassif in questo disco, che è un altro chitarrista acustico.
EdP: Che rappresenta però più uno sparring partner...
BJ: Esattamente. Ed è vero, siamo in un ambito acustico. Le uniche parti elettrche sono parti di basso o di chitarra slide.
EdP: Le canzoni originali suonano come brani tradizionali del folk fin dal primo ascolto. E’ qualcosa che tu provi a fare o che ti viene naturale? Hai la volontà di scrivere brani che resistano al trascorrere del tempo come quelli tradizionali?
BJ:. Non è una esplicità volontà, non ne sono cosciente. Le canzoni rappresentano quello che io sono in questo momento. Non voglio che i brani suonino come “questo” o come “quello”. Mi vengono naturalmente in questo modo. O forse mi viene naturale perchè dopo quarant’anni che scrivo musica , la musica esce così indipendentemente dalla mia volontà.
EdP: Se ascolto il tuo album e poi un disco dei Pantangle suonano freschi nello stesso modo, e non succede così spesso. Forse dipende dal fatto che ti sei voluto mantenere legato agli strumenti acustici, mantre quando ti muovi verso quelli elettrici la musica prende una piega diversa?
BJ: Io sono un chitarrista acustico, non un chitarrista elettrico, per cui lascio suonare la chitarra elettrica ad altri musicisti. In questo album a differenza degli altri io non ho avuto controllo sul prodotto finito perchè l’album è prodotto da Noah Georgeson. I due album precedenti invece li ho prodotti io, che è un aspetto significativo. Ma non considero me stesso come un produttore.
EdP: Quindi è stato più facile concentrarti su suonare, cantare e comporre come in qeusto caso?
BJ: Sì, è stato un bellissimo lavoro. Siamo stati presentati a Noah Georgeson da Geoff Travis della Rough Trade. All’inizio eravamo andati da Geoff per sapere se conosceva qualcuno su cui fare affidamento, e lui ha suggerito Noah. Per quanto mi riguarda, come produttore di me stesso mi è bastata l’esperienza dei due album precedenti!
EdP: Questo è il contrario di ciò che invece succede a molti artisti, che vogliono avere il controllo su tutto ciò che riguarda la loro musica, anche se non sempre è la mossa giusta...
BJ: Incontrando Noah, abbiamo incontrato anche Devendra Banhart e tutti i membri della sua band. Ci siamo incontrati all’Astoria, a Londra. Loro hanno colto al volo la chance.
EdP: Per quanto riguarda Devendra Banhart e gli ospiti, che cosa hai pensato quando hai visto il gruppo suonare dal vivo per la prima volta?
BJ : E’ stato piuttosto sorprendente, perchè quello che ho ascoltato ero io. Lo show è giocato intorno a Devendra e alle chitarre acustiche, anche se ci sono delle chitarre elettriche. Da quel momento in poi ho ascoltato alcuni suoi album e ho riconosciuto il mio stesso modo di suonare, è stato incredibile
EdP: La sua attitudine non è così comune oggi, è un pò hippy...
Bj: Sì assolutamente. Ti riporta dritto agli anni Sessanta ! il loro concerto è molto bello, in un certo senso simile a quello dei Pantangle anche se noi avevamo una più forte identità di gruppo, raccoglievamo elementi musicali di origini diverse, dal folk al jazz, tutti in una sola band.
EdP: Negli anni Sessanta se facevi parte di un gruppo eri parte di “quel gruppo”. Se lo lasciavi eri fuori. Oggi tutti stanno un pò con tutti... Non pensi che sia una buona chance per fare musica ma un pò un problema per il pubblico che segue l’artista?
BJ: Forse sì, ma quando ti piace un gruppo sei naturalmente portato ad ascoltare anche tutte le altre band ad esso collegate.
EdP: In Italia abbiamo un espressione che dice che quando qualcosa va male lo devi tenere in famiglia, “lavare i panni sporchi in famiglia”. Nei Pentangle vi siete tenuti tutto dentro senza esprimerlo all’esterno...
BJ: Penso che lavorare con Devendra sia molto meglio. E’ un modo per evitare che si creino attriti, per isolare il resto della storia.
EdP: Ma allo stesso tempo tenere i problemi dentro faceva sì che nei Pentangle si creasse una sorta di competizione tra i membri, che portava ognuno a dare il meglio di sé. Lo riscontri questo?
BJ: Eravamo una band molto chiusa, per sette anni nel gruppo non c’è stata nessuna intrusione esterna, per cui ci siamo molto isolati fino ad arrivare alla rottura. Il gruppo si è sciolto perchè nessuno si sentiva più libero di fare nient’altro, di avere altre esperienze.
EdP: Pensi che condividere la propria musica con qualcun’altro esterno al gruppo, staccare un pò, giovi per un artista anche alla sua band prinicipale?
BJ: In realtà penso che non devi per forza formare una band. Quello di Devendra è più un collettivo
che una band.
EdP: La colalborazione con Devendra ti ha portato ad andare incontro ad una nuova generazione. Ero al Green Man Festival e ho notato che mentre suonavi dal vivo nessuno si è distratto o è andato al bar. Con te più che con altri nomi magari più giovani, ad esempio i Calexico che erano gli headline. C’erano molti giovani interessati alla tua musica. Come è venuta fuori questa nuova generazione di ascoltatori? E’ successo in poco tempo?
BJ: Penso di no, credo sia un fenomeno continuativo e graduale degli ultimi dieci anni. La mia generazione si è trovata ad avere figli teenager, che a un certo punto dopo aver esplorato gli LPs dei genitori hanno cominciato a venire ai concerti. Magari suonando un disco a caso e scoprendo che gli piaceva. E così ti accorgi che in mezzo a un pubblico di mezza età spuntano dei ragazzini, che a volte vengono con i genitori ma altre anche da soli. E’ un pò strano da un certo punto di vista, perchè più io invecchio e più il mio pubblico diventa giovane !
EdP: Sei cresciuto in una scena musicale molto ricca e frizzante. Spesso quando sei giovane vuoi ottenere la fama e il successo, oggi vuoi la televisione e MTV. Che cosa successe all’epoca? Tu hai fatto una scelta...
BJ: C’era tanta voglia di scoprire negli anni Sessanta, di scoprire la musica. Non c’era la radio, non c’era niente... la musica la dovevi trovare. E quando la trovavi nasceva il desiderio di trovarsi con gli amici , di condividerlo. Anche oggi c’è questo fenomeno, ma le risorse sono diverse. Entri in un Virgin Mega Store e trovi tutto quello che vuoi. All’epoca anche se entravi in un negozio di dischi non trovavi la musica che volevi, al massimo ti potevi affidare alla BBC dell’epoca. E scoprire che potevi creare la tua propria musica era un’esperienza incredibile, ti rendeva una persona migliore.
EdP: Chi sono stati i tuoi maestri?
JB: Tra i miei maestri c'è Clive Palmer, fondatore della Incredible string band e poi dei favolosi C.O.B. Lo conosco da quando avevo 15 anni. Era di Londra ma aveva un grande attitudine a interpretare e creare musica folk, era una grande fonte di materiale e per noi scozzesi un punto costante di riferimento anche se ha cominciato a scrivere le sue proprie canzoni solo quando è nata l’Incredible String Band. Anche se all’epoca era così giovane ho imparato moltissimo da lui come artista e come persona, è colui a cui devo di più. Lui suonava la chitarra ma il suo strumento principale era il banjo. Per alcuni anni facemmo parte di un trio incredibile, prima dell’Icredible String Band. La mia band preferita di tutti i tempi sono i C.O.B., se li ascolti capisci come mai io fin da quando ero un ragazzino li trovavo così intriganti.
EdP: L’America, dove all’epoca non eri mai stato, rappresentava per te un sogno? L’immagine dell’hobo americano colpiva la vostra immaginazione?
JB: Per quanto riguarda l'America tutto ciò che veniva da laggiù era quasi divino a partire da Woody Guthrie fino a Sonny Terry che qui in Inghilterra suonava in piccoli locali pieni di gente.Uno dei miei ricordi più vivi dei miei primi anni nel circuto folk inglese, quando avevo sedici anni, fu un concerto di Sonny Terry & Brownie Mc Ghee. Non avevo mai visto un bluesman americano prima e fu un vero evento. Ti pareva di essere davvero in un campo di cotone!
EdP: Sempre riguardo ai tuoi maestri, ma andando avanti con gli anni. Prima hai menzionato quando dopo sette anni la band si sciolse. Dev’essere stato un periodo molto difficile. C’è stato qualcuno che ti ha aiutato ad attraversare quel momento?
BJ: Dopo la fine dei Pentangle non ho suonato per due anni. Come dopo la fine di un matrimonio. Poi fui riportato nel mondo della musica da Ralph Mc Tell, in occasione di due concerti.
EdP: Tornardo al’album e ai contributi dei musicisti giovani, un improtante contributo è quello di Beth Orton. Come è stato lavorare con lei?
BJ: Beth Orton sa di dover essere paragonata a Jaqui McShee, anche se sono molto diverse e ha lavorarto molto su se stessa in queste registrazioni. L'ho incontrata due anni fa quando furbescamente -mi chiese di prendere lezioni di chitarra. Poi siamo diventati amici. Ho scritto una canzone apposta per lei: ha un'impostazione della musica sicuramente più commerciale rispetto a me, ma c'è un terreno comune fra di noi. Gran parte dell’album è stato registrato in casa, è stato così per gli ultimi tre album.
EdP: Suonerai in america?
BJ: Sì, suoneremo a San Francisco e Los Angeles con Devendra
EdP: E’ da molto che non suoni in America?
BJ: Sono rimasto un pò disilluso dal lavorare in America
EdP: C’è stato un periodo in cui volevi lavorare li ?
BJ: Ci sono andato per 10 anni due volte l'anno, ma alla fine ho detto basta. Ero sempre da solo, nessuno lavorava per me. Certo, avevo grande libertà di movimento, ma alla fine dovevo pagare tutto in viaggi aerei.
EdP: Cosa è sucesso al tuo catalogo?
BJ: Una buona parte è stato ristampato e rimasterizzato, sia i lavori con i Pentangle che quelli da solista. Molto su etichetta Sanctuary, hanno fatto un ottimo lavoro.
EdP: Te lo chiedo perchè al di fuori dell’Inghilterra non sempre il catalogo si trova
BJ: dovrebbe essere reperibile...
EdP. Lo è, ma in Italia ad esempio i negozi per averlo devono richiederlo. Com’era l’atmosfera nell’etichetta Transatlantic, con cui tu hai cominciato come solista e poi con i Pentangle?
BJ: Non penso che la Transatlantic sapesse esattamente cosa aveva tra le mani. Gli inizi furono molto pionieristici, facevano bei dischi e sapevano cosa dovevano vendere istintivamente ma poi seguivano anche molta gente oscura. Figurati che seguivano anche gente oscura come me... Quando cominciavi a parlare di andare in televisione, solo la musica che era ammesa in televisione ce la faceva davvero. La musica come la mia magari vendeva, ma solo in piccole quantità.
EdP: Anche quando non c’era la televisione però c’era un audience, c’era un pubblico che comprava i dischi. E’ vero? Dopo gli inzi, dopo l’esperienza con Clive Palmer, quando è che il tuo pubblico si è fatto più vasto?
BJ: Intorno al perido dei Pentangle, seconda metà degli anni Sessanta
EdP: Sapresti individuare un motivo? C’è mai stato un concerto in cui siate saliti sul palco e avete pensato “qualcosa è cambiato rispetto all’altra volta”?
BJ: Non saprei... Abbiamo passato un anno intero a suonare in un pub, poi abbiamo firmato un contratto con il manager Joe Lustig. Alla fine di quello stesso anno abbiamo suonato alla Royal Festival Hall e da quel momento in poi furono sette anni a gonfie vele Quello a tutti gli effetti fu il nostro primo concerto importante, ma i motivi per cui in poco tempo passammo dal pub alla Royal Festival Hall non li so !
Edp: I Pantangle avevano bisogno di parlare molto gli uni con gli altri oppure ognuno andava a dritto? Eravate aperti nelle discussioni tra di voi?
Bj: Sì e Joe Lustig, il nostro mangar di allora, era un bravo manager anche se non aveva controllo sulla band... La band diciamo...
EdP: Se lo mangiava!
BJ: La band avrebbbe mangiato chiunque ! Quando facevamo i tour oppure davanti ad ogni test da superare eravamo molto indipendenti, andavamo per la nostra strada.
EdP: Non ve ne fregava niente...
BJ: Esatto, non ce ne fregava niente, di niente e di nessuno. Questa era la nostra natura all’epoca.
EdP: Questa non è un’attitudine folk, è più un’ attitudine rock n’ roll...
BJ: Certo, ma noi eravamo rock n’ roll!
EdP: E chi eri te all’epoca di questo album? (Mostra la copertina del primo album)
BJ: Questo è il primo album. Ero un giovane uomo arrabbiato... che non voleva essere fotografato. Questa è una delle prime foto che mi sono state fatte.
EdP: Ti buttasti subito nella composizione di materiale originale...
BJ: Sì, questo mi rappresentava molto. Ero io all’epoca. Un’ affermazione dalla mia personalità.
EdP: Quando album come questi arrivarono in Italia, alcune composizioni originali sembravano dei classici...Quando è stata la prima volta che sei venuto in Italia?
BJ: Sicuramente non con il gruppo ma già da solo. Eravamo un gruppo rock, abbiamo sfasciato un pò di hotel...
EdP: E allo stesso tempo eravate così cool nel suonare cose acustiche con molte dinamiche...
BJ: Infatti questo ancora non l’ho capito, non so come ci potessimo riuscire... Una volta abbiamo bevuto un quantitativo assurdo di champagne francese, perchè quello americano non ci piaceva, ci siamo completamente ubriacati e poi abbiamo fatto il concerto. Non so come abbiamo fatto, in quelle condizioni avremmo potuto far saltare il concerto, e invece è andato tutto liscio
EdP: Che diresti ai musicisti giovani che ascoltano il tuo primo disco oggi, che ti scoprono con questo album?
BJ: Go ahead and do it !
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