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John Martyn

Ho conosciuto per la prima volta la musica di John Martyn nel 1972 ascoltando The Road To Ruin, firmato insieme alla moglie Beverley, e già recensito da Michele Manzotti su questo sito. Acquistai l’album, in offerta speciale a 1.500 lire, insieme a Bryter Layter di Nick Drake. Sapevo poco o nulla di loro due, ma mi fidavo ciecamente dell’etichetta Island, la stessa dei King Crimson, di ELP, dei Jethro Tull. E poi mi colpivano i nomi di alcuni musicisti ospiti, comuni, in parte, ai due album: Richard Thompson, Dave Pegg e Dave Mattacks dai Fairport Convention, Danny Thompson dei Pentangle, i fiatisti Lyn Dobson, Ray Warleigh e Dudu Pukwana che avevo già ascoltato nei dischi di Keith Tippett e Mike Westbrook. Per finire il logo della Witchseason di Joe Boyd che associavo agli adorati e già leggendari Fairport. Tornare a parlare oggi di John Martyn mi permette di collegare tra di loro mille spunti diversi, riallacciare fili e legami di cui all’epoca ero molto poco consapevole. Un fatto però era già chiaro, al di là delle poche informazioni che noi ragazzini affamati di musica potevamo trarre dalla stampa italiana e dai pochi dischi a disposizione: c’era una traccia sottile che collegava Tim Buckley, Nick Drake, John Martyn, Shawn Phillips e il Van Morrison di Astral Weeks.
Più passa il tempo e più aumenta oggi la mia insofferenza nei confronti di chi etichetta la musica, i generi come se fossero farfalle da infilzare con gli spilloni sugli espositori. Invece, esaminando la carriera di un artista come John Martyn, balza subito agli occhi quanto fosse complessa, intricata, imprevedibile, creativa e cangiante, ricca di splendide contraddizioni, la scena musicale dei suoi tempi.
Possiamo ripercorrere la prima parte della sua carriera grazie alla recente pubblicazione da parte della Universal, in versione rimasterizzata e ampliata, di London Cvonversation (1967), The Tumbler (1968), Bless The Weather (1971), Inside Out (1973) e Sunday’s Child (1975). John Martyn (Iain David McGeachy) nasce l’undici settembre del 1948 a New Malden, nel Surrey, ma presto si trasferisce a Glasgow, dove, solo due anni prima, è nato Donovan. Come Donovan muove i primi passi nei folk club ma rimane presto folgorato dagli straordinari esperimenti, dalle commistioni tra folk, blues e scale orientali operate da Davy Graham. Quella è la scintilla che darà vita a una rivoluzione epocale: le antiche ballate scozzesi e inglesi vengono reinventate e ricostruite guardando all’India e al Marocco, con un’orecchio a Dylan e l’altro ai Beatles. Davy Graham, John Renbourn, Bert Jansch e Martin Carthy sperimentano nuove accordature sulla chitarra lanciando arditi ponti tra la modalità delle antiche ballate, delle melodie per cornamusa, e l’ipnosi psichedelica del raga-rock. Oltre oceano percorrono strade simili alle loro John Fahey, Joni Mitchell e Shawn Phillips. Il personaggio che riesce a portare alla ribalta, alla conoscenza del pubblico di massa tutto ciò è proprio Donovan, un artista cresciuto alla scuola del folk scozzese che riesce a bagnare Woody Guthrie nel Gange, nel Tamigi e nella baia di San Francisco. Su questi presupposti Martyn realizza, a diciannove anni, il primo album, London Conversation. La dimensione è quella classica (e di moda allora) del cantautore e del folksinger, ma già si notano le divagazioni raga di Rolling Home, con sitar e flauto dolce. Martyn si mostra subito – e lo confermerà negli anni a venire - un misto di dolcezza e di potenza, sia nell’uso della voce che nel modo, energico e raffinato, di suonare la chitarra. Particolarmente toccante è la seconda traccia, Sandy Grey, della cantautrice americana Robin Fredericks, dedicata a Nick Drake. Martyn e Drake furono amici fraterni, per quanto Nick poteva permetterti di essergli amico, e a lui John dedicherà qualche anno dopo quello che molti ritengono il suo capolavoro, il visionario e inafferrabile Solid Air. L’album d’esordio si chiude con una raffinata riproposta della dylaniana Don’t Think Twice, ma il bonus aggiunto ci permette di dare un’altra sbirciata al mondo del folk con She Moves Through The Fair, un brano sul quale poco dopo si sarebbe esercitata la fantasia dei Fairport Convention e di Alan Stivell fra tanti.

Il secondo album di John Martyn, The Tumbler, è ancora impregnato di folk e di tradizione, di solido fingerpicking, anche se le canzoni sono tutte firmate da lui. Per avere una dimostrazione della bravura di Martyn come chitarrista basta ascoltare le spericolate modulazioni di Seven Black Roses, l’ultima traccia del disco. Ma a impreziosire The Tumbler, a colorarlo gentilmente di pennellate jazzistiche, contribuisce soprattutto il flauto del giamaicano Harold McNair, lo stesso che in quegli anni spruzzava di esotico tanti brani di Donovan (ricordate i riff ipnotici e tribali di There Is A Mountain?). Badate bene, siamo nel 1968 e la Giamaica è ancora un’isola sconosciuta in Europa dal punto di vista musicale. Poi negli anni Settanta i Rolling Stones, Paul Simon, i Traffic ci avvicineranno ai suoni di Kingston, ma in quel magico 1968 Donovan, John Martyn e Harold McNair erano sicuramente dei pionieri. Da segnalare fra tante piccole gemme la delicata Dusty, dedicata alla casa della sua infanzia a Hampton. Hello Train è attraversata da fremiti psichedelici di chitarre al contrario mentre Fly On Home ha l’andamento pigro e trasognato del miglior Tim Buckley.

Nel 1969 John Martin sposa la cantante Beverley Kutner e firma con lei due album belli anche se discontinui, Stormbringer e TheRoad To Ruin, ma poi, nel nuovo decennio, i discografici premono per una carriera da solista. John Martyn si è trasferito in campagna, è diventato padre e un misto di pace idilliaca, di pigre e riflessive meditazioni, attraversano tutto Bless The Weather, del 1971. Come lo stesso John ha puntualizzato voleva essere un album immediato, spontaneo, e molte canzoni nacquero direttamente in studio. Bless The Weather è un album solare e rilassato, vibrante e ondeggiante. Ad accompagnare Martyn troviamo tra gli altri Richard Thompson, sottile ed essenziale come sempre, e Tony Reeves dei Colosseum. Ma il vero coprotagonista del disco è il bassista Danny Thompson, la pietra “pentangolare” del folk revival, collaboratore storico, tanto per cambiare, di Donovan. Proprio Donovan ha dato una descrizione quanto mai azzeccata del suo modo di suonare: “il contrabbaso di Danny sembra ogni volta voler fuggire, saltare fuori dalle tracce del disco” . Siamo nel 1971 e l’amico Nick Drake si tormenta e si nasconde nel fascino misterioso di Bryter Layter. E se Drake spera che forse più tardi il tempo si rasserenerà, per John Martyn splende un sole tiepido e primaverile. Bless The Weather lo puoi godere come se fosse l’altra faccia, quella luminosa, di Bryter Layter. Provate ad ascoltare Just Now e confrontatela con Northern Sky: due diversi modi di giocare con l’idea della trasparenza. Altro brano memorabile è sicuramente Glistening Glyndebourne, sei minuti e mezzo di improvvisazione dominati dagli effetti dell’echoplex applicati alla chitarra acustica. Un lungo brano strumentale a testimoniare che per John sta passando defitivamente la stagione del cantautore armato solo di voce e chitarra, che i confini dell’espressione devono necessariamente ampliarsi. Il bello di Bless The Weather è che più lo ascolti e più ti chiedi: “che musica è, che genere è?” E poi dopo un po’ascolti e basta, e scopri quanto sia sciocca la domanda. Se devo trovare un altro album da paragonargli, mi viene in mente l’impalpabile e cangiante primo disco di Mark Almond, i compagni di strada del John Mayall unplugged. L’album originale si chiude con un breve divertimento su Singin’ in The Rain, ma questa versione rimasterizzata della Universal ci regala ben sette bonus, quasi un disco in più, tra versioni alternative e singoli.

Nel 1972 esce Solid Air, l’accorato omaggio a Nick Drake, e partecipano alla registrazione più o meno quasi tutti i Fairport Convention. Nell’ottobre del 1973 ecco Inside Out che lo stesso Martyn definisce: “è tutto ciò che volevo fare musicalmente, viene fuori tutto ciò che ho dentro”. La tendenza all’improvvisazione che traspariva in Bless The Weather qui è un frutto maturo. Ascoltate ad esempio Ain’t No Saint: sospiri, mugolii, frammenti di parole sussurrate sommersi da nervosi tremoli di chitarra e ritmi di tablas. Anche la passione per le radici, per il folk, è trasfigurata e deformata: Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhaill è un’ aria per cornamusa affidata a una chitarra distorta e nasale. Mi immagino un Hendrix in kilt che viene a visitarlo in sogno. Anche in quest’album troviamo un lungo brano strumentale ed elettrico, Outside In, pulsante e acido. Il sapore jazzistico e aperto dell’opera è merito anche degli spettacolari accompagnatori: oltre al fondamentale Danny Thompson, elemento ormai insostituibile per John Martyn, ci sono Steve Winwood, Chris Wood, Bobby Keyes e Remi Kabaka impegnati a disegnare paesaggi sconfinati e atmosfere coltraniane. Un albun sull’amore dirà John, inciso quasi tutto alle prime luci dell’alba e tutto in diretta, con le jam lasciate come erano, soltanto sfumate per farle rientrare nell’angusto spazio del vinile. A volte il sussurro si trasforma in urlo, un’anticipazione di quello che sarà il John Martyn degli anni Ottanta, una delle più belle voci soul bianche. Arioso e sognante, è il brano dedicato alla moglie, Beverley: eterei arpeggi della chitarra acustica, il basso con l’arco di Thompson, un lontano lamento della chitarra elettrica. Anche in questa riedizione c’è una generosa dose di bonus, tratti per la maggior parte dalle session alla BBC con John Peel e, inoltre, una lunga sesion inedita, Space, di ben diciotto minuti.

Arriviamo a metà del 1975 con Sunday’s Child, uscito nel gennaio del 1975. John Martyn lo descive come un album romantico, dedicato alla famiglia, alla pace domestica, alla figlia Mhairi, e proprio a lei è dedicata My Baby Girl, una soffice ninna-nanna swing. E non è un caso che qui compaia per l’ultima volta, nei cori, la delicata voce di Beverley. Nella versione originale non riuscì ad rientrare un’altra tenera ballata, Ellie Rhee, ma per fortuna la ritroviamo qui come primo dei bonus. Torna anche, nella sua forma più pura, quella della ballata strofica, l’omaggio alla tradizione, con Spencer The Rover, una performance di altissima classe degna del migliore James Taylor. Ancora una volta Danny Thompson, con il suo contrabbasso pulsante e incalzante, è la spina dorsale del disco. Strane alchimie sonore quelle di John Martyn: Sunday’s Child è un disco che ti lascia un sapore di pace soffusa, ma non mancano i momenti duri e incalzanti, con taglienti interventi della chitarra wha-wha. Sono forse questi gli elementi del suo mistero, della sua grandezza, della sua magica discontinuità: sa essere duro e penetrante nelle dimensioni acustiche e morbido in quelle elettriche. In reltà John Martyn è un bambino capriccioso ed esuberante che gioca con i generi e, come tutti i bambini del mondo, dopo un po’ si stanca e passa ad altro. Ecco allora Satisfied Mind, una pigra ballata country con languide scivolate di steel guitar seguita dalla dondolante e sussurrata You Can Discover. L’album originale, a parte i bonus - anche qui tratti per la maggior parte dalle session di John Peel - si chiude con Call Me Crazy, una specie di rhythm and blues splendidamente trattenuto, introverso, che non vuole esplodere, con una lunga, vaghissima, coda strumentale. Call Me Crazy, chiamatemi pazzo, ci dice, e sicuramente John Martyn è un vero pazzo della scena musicale, ma, come molti pazzi, è anche un genio.

Stefano Pogelli

London Conversation



1. Fairy Tale Lullaby
2. Sandy Grey
3. London Conversation
4. Ballad Of An Elder Woman
5. Cocain
6. Run Honey Run
7. Back To Stay
8. Rolling Home
9. Who's Grown Up Now
10. Golden Girl
11. This Time
12. Don't Think Twice It's Alright
bonus:
13. She Moved Through The Fair (Previously unreleased)


The Tumbler


1. Sing A Song Of Summer
2. River
3. Goin' Down To Memphis
4. Gardeners
5. Day At The Sea
6. Fishin' Blues
7. Dusty
8. Hello Train
9. Winding Boy
10. Fly On Home
11. Knuckeldy Crunch/Slippledee Slee Song
12. Seven Black Roses


Bless The Weather

1. Go Easy
2. Bless The Weather
3. Sugar Lump
4. Walk To The Water
5. Just Now
6. Head And Heart
7. Let The Good Things Come
8. Back Down The River
9. Glistening Glyndebourne
10. Singin' In The Rain
bonus:
11. Walk To The Water (alternate take)
12. Bless The Weather (alternate take)
13. Back Down The River (alternate take)
14. Go Easy (alternate take)
15. Glistening Glyndebourne (alternate take)
16. Head And Heart (band version)
17. May You Never (single version)


Inside Out

1. Fine Lines
2. Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhail
3. Ain't No Saint
4. Outside In
5. Glory Of Love
6. Look In
7. Beverley
8. Make No Mistake
9. Ways To Cry
10. So Much In Love With You
bonus:
11. Space (jam # 7)
12. Beverley/Make No Mistake (BBC Session 10/10/73)
13. Fine Lines (BBC Session 10/10/73)
14. Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhail (BBC Session 10/10/73)
15. Outside In (BBC Session 10/10/73)


Sunday’s Child

1. One Day Without You
2. Lay It All Down
3. Root Love
4. My Baby Girl
5. Sunday's Child
6. Spencer The Rover
7. Clutches
8. Message
9. Satisfied Mind
10. You Can Discover
11. Call Me Crazy
bonus:
12. Ellie Rhee (previously unreleased song)
13. Satisfied Mind (alternate take)
14. One Day Without You (John Peel Session 7th January 1975)
15. You Can Discover (John Peel Session 7th January 1975)
16. My Baby Girl (John Peel Session 7th January 1975)
17. Message (John Peel Session 7th January 1975)
18. Spencer The Rover (John Peel Session 7th January 1975)

Altri ascolti: One World

Se vogliamo prendere in considerazione tutta la parabola del primo John Martyn, fino alla fine degli anni Settanta, non possiamo ignorare One World, pubblicato nel novembre del 1977. È un periodo difficile per John: due anni prima ha prodotto da solo (la Island non approva il progetto) un album dal vivo, registrato a Leeds, con Danny Thompson, John Stevens alla batteria e Paul Kossoff alla chitarra. Il disco, in tiratura limitata, diviene presto un rarissimo oggetto di culto. Decide poi di prendersi un periodo di riposo in Giamaica, ha voglia di fuggire forse dai problemi con la moglie e con l’alcol. Con One World John Martyn cambia pelle. Disco di passaggio? Certamente. Disco più facile e commerciale? Magari tutti i dischi commerciali fossero così. La band è di altissimo livello con Dave Pegg, Steve Winwood, Morris Pert dei Brand X, Jon Fields dei Jade Warrior, Bruce Rowlands della nuova line-up dei Fairport. L’influsso giamaicano si nota soprattutto in Big Muff che si avvale della collaborazione di Lee Scratch Perry. Si possono avere opinioni discordi su One World ma John Martyn ci regala sicuramente un capolavoro, un brano che da solo giustifica tutto il disco, Couldn’t Love You More, un brano sul quale tornerà più volte a lavorare negli anni a venire. Il basso di Thompson e l’organo di Winwood sostengono un pezzo fatto di niente, basato soltanto su due accordi, un pezzo talmente semplice che solo un grande musicista è capace di scriverlo.

Stefano Pogelli

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