. | Prima di andare in scena, dietro al palco con Jacques Brel L'appuntamento è alle 13,30. Place Vielle Halle aux Blés, in pieno centro a Bruxelles. «E' sullo stesso lato di un negozio di spartiti. Non puoi sbagliare». Sono puntuale, è l'ora di pranzo, ma non ci sarà il tempo di mangiare. E nemmeno l'occasione. Sarebbe come essere invitati a pranzo dalla statua del Commendatore. Non è un convitato di pietra colui che dobbiamo incontrare, anche se non è nemmeno in carne ed ossa. Certo che è un fantasma, ma sembra vivo, vivissimo. Jacques Brel ti accoglie con il solito sorriso aperto che compare in tante copertine dei suoi dischi e con un gran voglia di dirti qualcosa. Di parlare di musica. Di parlare, comunque. E lo facciamo dentro un camerino dove ci sono una chitarra, un pacchetto di Gitanes destinato a finire presto, qualche pillola contro il mal di stomaco, una baguette lasciata a metà. Vorrei chiedergli una delle tante cartoline per autografi che ha vicino a sé, ma alla fine le cose da dire saranno tante, e non ci sarà tempo per avere qualcosa di diverso dai suoi ricordi e dalle sue opinioni. «Se vuoi possiamo rivivere insieme il concerto che ho dato al casino di Knokke nel 1963 e che proiettano in continuazione nella sala qui accanto. Forse in Italia non ne sapete abbastanza, ma quel posto per il Belgio e la sua costa è molto importante. Lì si esibivano i migliori musicisti, c’erano le mostre degli artisti più importanti della nostra terra. Il pubblico era attento, sapeva scegliere, era parte dello spettacolo con la sua competenza. Un po’ come succedeva da voi, in quel locale chiamato Bussola che si trovava a Viareggio. Hai visto il mio vestito di scena? Era quello che potevamo permetterci all’epoca: nero con la cravatta nera. Un Blues Brother senza cappello né occhiali. Non contavamo su effetti speciali, dovevamo essere noi stessi. Ma anche se l’immagine era molto sobria, hai visto quanta forza tiravo fuori? Sudavo come un matto, cosa che oggi le nuove tecnologie nasconderebbero secondo le esigenze attuali di look. Anche i miei musicisti sapevano assecondarmi: Jean Corti alla fisarmonica su tutti. Forse era quello che dava una marcia in più». Un ottimo modo per conoscere l’arte di Jacques Brel (1929-1978) è il set dei tre Dvd Comme quand on était beau pubblicato nel 2003 dalla Barclay/Universal. Sono 7 ore di musica con registrazioni dal 1958 al 1977, vari gli inediti, e che comprendono tutti i maggiori successi dell’artista belga. Gran parte del materiale è tratto da trasmissioni televisive più che da concerti dal vivo. Per questo il cofanetto è di grande interesse, dato che a differenza di oggi, le riprese delle esibizioni live erano tutt’altro che perfette. La telecamera televisiva invece riusciva a focalizzare l’uomo Brel nel suo modo di fare spettacolo e sono quindi più apprezzabili le serie di trasmissioni che comprendono più brani: Club Domino del 1962 e 1963, Rendez-vous avec (trasmissione simile a quella italiana dal titolo 15 minuti con ideata da Enzo Trapani) del 1960, Midi-Variétés del 1966, Jacques Brel del 1968, con una breve intervista. Il look varia dalla giacca e cravatta al maglione nero a collo alto, la strumentazione è essenziale (pianoforte, contrabbasso, batteria, fisarmonica), con la chitarra che viene talvolta imbracciata dallo stesso Brel. Ma anche per questo i brani vengono resi nella loro essenza, brani che hanno un fascino particolare nella loro carica rivoluzionaria di rottura dello schema esposizione-refrain-esposizione e l’inizio di quella ripetizione della frase melodica strettamente legata al significato del testo che poi sarà ripresa da tanti altri artisti. Segnaliamo infine due aspetti particolari: tre estratti dal film Mon Oncle Benjamin del 1969 dove l’attore Brel intona alcune melodie in costume da popolano settecentesco, e soprattutto uno in cui Brel è voce recitante di Pierino e il lupo nel 1963 in una ripresa della Radio televisione belga francese. «Bruxelles non è Parigi, non ha lo stesso fascino. Ma è una città vitale, come ho raccontato nella canzone che porta il suo nome. Lo è stata e lo è a maggior ragione tuttora che è capitale d'Europa. Mentre la vicina-rivale Amsterdam l'ho cantata nel suo lato più malinconico, ricordando la vita dei marinai, Bruxelles la vedo come una città piena di gente che corre da un punto all'altro per cercare divertimento fino a notte fonda mangiando da Falstaff e bevendo il bicchiere della staffa all'Archiduc ascoltando buona musica. La stessa atmosfera che canto quando aspetto invano l’arrivo dell’amata Madeleine (la cui scomparsa mi ha procurato tanta tristezza). Io sono nato in uno dei suoi 19 comuni, Shaerbeek. In questa città mio padre ha gestito con grande bravura e onestà una fabbrica di carta, riuscendo anche a sopravvivere nei difficili anni della guerra. Qui ho fatto gli studi al collegio Saint-Louis, qui ho conosciuto e sposato mia moglie Miche e qui sono nate le mie figlie Chantal, France e Isabelle. Anche quando ho passato gli ultimi anni della mia vita in mare, o pilotando aerei, o nelle isole dell'Oceano Pacifico, Bruxelles non è mai sparita del tutto dalla mia vita». La fondazione Jacques Brel, voluta dalla figlia France e attraverso la quale si tutela l'immagine dell'artista dando l'autorizzazione alle traduzioni in lingua straniera, si trova dove abbiamo ambientato l’appuntamento con l’artista. E’ una piccola struttura pensata non tanto come museo ma come luogo per ascoltare e per vedere Brel, ovviamente nei filmati d’epoca. Per questo è stata allestita una sala con schermo dalla capienza di 50 posti: prima di entrarvi c’è una sagoma cartonata del cantante e uno schermo che manda in continuazione i cinegiornali d’epoca che ne raccontano i successi. All’uscita invece è ricostruito il camerino con gli oggetti di cui abbiamo già parlato, oltre a giacca e accappatoio. Il filmato scelto per i visitatori è quello del concerto al casino di Knokke del 1963. Knokke è la più nota località sulla costa belga, quella frequentata dalla gente agiata e dalla nomenclatura politica. Dieci anni prima Brel partecipò a un concorso per giovani artisti nello stesso luogo arrivando ventisettesimo su 28 concorrenti. Per i cultori della storia musicale, la curiosità in questo concerto è che per la prima volta Brel eseguì Mathilde in pubblico, mentre le esecuzioni di Bruxelles e Les fenêtres erano rimaste inedite. Segue poi un'intervista in un locale di Knokke che risale al 1971.Tra le produzioni video della Fondazione, il balletto che Maurice Bejart ha pensato ispirandosi ai brani di Brel e Barbara e il recupero del concerto francese dell’Olympia del 1966. «La Francia? Io mi sento belga fino all'osso, con tutti i limiti che il mio paese possa avere. Eppure devo molto alla Francia, che a sua volta mi deve molto. Mi considerano uno dei grandi interpreti della canzone francese, o meglio “in” francese. Sono messo in parallelo con altri due grandi colleghi, Georges Brassens e Leo Ferré. C'è addirittura un libro con tante foto che racconta un nostro incontro. A Parigi ho lavorato tanti anni, gli anni dell'apprendistato, mentre la mia famiglia continuava a vivere a Bruxelles. E poi ho dedicato a Parigi una delle canzoni più belle che potessi scrivere, sfido a trovarne un'altra che abbia lo stesso fascino, anche di altri compositori. La valse a mille temps, con la città che batte il tempo. Tre, quattro, venti, cento, mille volte. Tutti possono ballarla, anche sognando. Parigi significa anche il palcoscenico dell’Olympia dove nel 1966 decisi di dare il concerto di commiato. Ma anche Bobino, locale storico dove ho ottenuto i miei primi successi». «Come si fa a dire che ho odiato i fiamminghi? Lo sai che sui muri di qualche paesino era comparsa la scritta 'Brel è morto, hurrà!' Certo ho scritto Les Flamandes che è tutt'altro che indulgente nei confronti di certa tradizione che rimaneva viva nelle Fiandre. Ma ho anche scritto brani come Les Bigotes o Les Bourgeois, io non sopportavo atteggiamenti gretti, provinciali, e in questo non ci sono distinzioni di lingue o di geografia. E poi, non basta ricordare il grande amore cantato per Marieke, tra le torri di Bruges e Gand. O il Plat pays dove le montagne sono le splendide cattedrali? Mijn vlakke land, mijn platte land, è una dichiarazione di affetto, di appartenenza. Vive les Belgiens, merde pour les Flamingants, dice un verso di La,La,La. Abbasso la mentalità ottusa, ovunque questa abiti. Mi piace pensare che i giovani musicisti fiamminghi abbiano capito tutto questo». E' un peccato che Puur Brel, tributo di musicisti delle Fiandre, non goda di adeguata distribuzione. L'album con Dvd, uscito nel 2003, riprende registrazioni e interviste effettuate negli studi di JimTv,dove la trasmissione Puur Brel è andata in onda la domenica sera in quell'anno. Il valore di queste versioni sta nella voglia di sperimentare da parte di musicisti che difficilmente hanno notorietà fuori dal ristretto circuito della zona dove si parla l'olandese (figuriamoci in Italia). Eppure sarebbero tutti da citare, perché hanno dato regalato versioni fresche, divertenti, malinconiche, energiche, ma soprattutto perché le hanno calate nelle sonorità odierne. Ne me quitte pas diventa punk nelle mani di Janez Detd, Praga Khan valorizza la traduzione inglese di Amsterdam con campionamenti e suoni elettronici, De Burgerij (Les Bourgeois nel testo fiammingo cantato dallo stesso Brel) di Camden è ironica nell'arrangiamento e funzionale nella sua particolarità linguistica con il ritmo di valzer. Ed è sicuramente curioso il coro femminile La Scala con Voir un ami pleurer accompagnato dal solo pianoforte. «Gli americani mi hanno compreso abbastanza in fretta, pur non essendo proprio un compositore da Quinta Avenue. Eppure il musical sulle mie canzoni funziona. Alive, well and living in Paris è un bel titolo. Mi piace il modo di dire inglese in cui uno è “vivo, sta bene e abita in”. Ma tornando allo spettacolo, trovo che funzionava ancora e funziona tuttora, tanto che è in scena a Broadway, allo Zipper Theater, con quattro cantanti che si alternano nelle versioni inglesi dei miei brani. Chi può dire altrettanto fra gli autori di canzoni, specialmente europei. Anzi di un piccolo paese che oltre oceano magari nemmeno conoscono?» E' alla fine degli anni '60 che la musica di Brel sbarca negli Stati Uniti addirittura con un musical. Jacques Brel is alive and well and living in Paris fu costruito con i brani dell'artista tradotti e adattati da Eric Braun e Mort Shuman e interpretati da quattro cantanti (lo stesso Shuman, Elly Stone, Shawn Eliott, Alice Whitfield). Il debutto al Greenwich Village nel 1968 fu una rivelazione per molti artisti di lingua inglese che decisero di utilizzare brani di Brel, a partire da Frank Sinatra per arrivare a David Bowie. Ovviamente il contenuto tipicamente europeo dei brani non poteva rimanere al cento per cento nei brani. Les flamandes diventò Marathon, La valse à mille temps fu trasformata in Carousel. Ma lo spettacolo nel suo complesso funzionò, tanto che è stato reinciso su cd nel 2002 con il cast originale a cura della Columbia (esiste anche il Dvd, riprese del 1975 con la partecipazione dello stesso Brel) Oggi lo spettacolo a New York è proposto da un altro quartetto di cantanti (Robert Cuccioli, Natascia Diaz, Jim Stanek e Gay Marshall) e riportato su Cd nel 2006 per l'etichetta Ghostlight. «Lo so che in Italia mi amate molto. Ci sono dei bravi artisti da voi che mi hanno interpretato con traduzioni non solo appropriate, ma anche molto belle. Dalla Fondazione che porta il mio nome hanno dato il via libera a quelle di Duilio del Prete. Ci sono versioni che per ragioni diverse erano molto difficili da rendere in un'altra lingua, sia poeticamente sia con lo stesso contenuto. E anche ciò che ai miei tempi fece Herbert Pagani in Italia è passato quasi inosservato: ma ascoltatevi il Testamento all'Italiana che riprende Le Moribond, oppure Le plat pays, che invece di scimmiottare il mio testo che parla delle Fiandre traferisce le sue sensazioni e la sua arte descrivendo una regione d'Italia. Vorrei anche ricordare quel signore un po' strano che in parte si è ispirato a me, Piero Ciampi. La sua Tu no ricorda tanto Ne me quitte pas, eppure è una canzone che ha una sua dignità. Bravo».
«Tutto sommato invecchiare poteva essere triste, Avevo cantato la vecchiaia e non so se mi ci sarei potuto abituare. Perché i vecchi anche se sono ricchi, sono poveri, dato che non hanno più sogni o illusioni. Tenere qualcuno per mano per non perdersi, non potere più cantare dopo il bicchiere di vino dolce bevuto la domenica. Magari sarei diventato un vecchio ottimista, un vecchio a cui non sarebbero mancati gli affetti e l'amore di qualche donna giovane, una circostanza che avrei sicuramente cercato. Ecco, forse l'amore mi avrebbe fatto dimenticare l'età che avanzava. L'amore è una cosa troppo grande per essere concentrato su una sola persona. Per questo sono stato legato a più donne. Non perché sono un artista con le sue strane manie. Ma perché considero l'amore qualcosa di speciale». Concludiamo la descrizione dei tributi con l'album Next Brel (recensito sul Popolo del Blues nel dicembre 2004), pubblicato dalla Barclay/Universal e dedicato alle versioni in lingua inglese, molte nell’adattamento già ricordato di Blau e Schuman. Se vogliamo trovare un difetto a questo lavoro è la doppia riproposta di tre brani come Amsterdam, If you go away (Ne me quitte pas) e Next (Aux suivant), ma al tempo stesso i protagonisti fanno in modo di farci cambiare idea. Perché la minimale Amsterdam di David Bowie, registrata durante una delle mitiche trasmissioni Bbc di John Peel nel 1970, è ben diversa da quella di Anne Watts, la cui voce grave si lega bene al lavoro pianistico. Per non parlare di Alex Harvey e Gavin Friday, protagonisti di Next in versioni stralunate, quasi circensi. Tra le altre perle c’è The desperate ones (Les désespérés) di Nina Simone (incisione del 1969), l’iniziale e scoppiettante Mathilde di Scott Walker (1967), anch’essi pionieri di Brel in lingua inglese. «Prima ti parlavo della forza delle mie esibizioni. Sai, anche se uno ha talento, deve studiare e lavorare continuamente se no il talento non serve a nulla. Per questo volevo trovare nuovi stimoli. Dopo aver fatto il cantante e l'autore dal 1967 ho voluto anche essere attore, prima con le canzoni de L'Homme de la Mancha dove ero vestito da Don Chisciotte, poi con i film. Non mi importa pensare che la gente mi ricorda più per le mie canzoni piuttosto che per le pellicole che ho fatto negli anni '70. Dovevo farlo, dovevo assecondare il mio istinto, la mia voglia di imparare. E non avevo certo smesso di scrivere canzoni». Il nostro tempo finisce in fretta. «Devo prepararmi per andare in scena». Mi saluta con l'immancabile sorriso accendendosi l'ennesima Gitanes. L'ora di pranzo è già passata da tempo, così come la fame e tentando di mettere ordine nella mia testa non posso fare altro che prendere un treno che mi porta a nord. In un paesaggio dove le uniche montagne sono le cattedrali e dove forse è ancora rimasta Marieke, con qualche chilo in più e i capelli bianchi. Le plat pays qui est le mien.
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