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No Guru, No Method, No Teacher: Van Morrison, una retrospettiva critica L’arrivo nei negozi, a fine gennaio della prima trance di sette ristampe, che copriranno l’intera discografia di Van Morrison ci danno l’occasione di tornare e approfondire la vita e la carriera artistica dell’irlandese. At the end of january will be released the first trance of re-release with unreleased tracks from Van Morrison’s discography. This important event, is for us an occasion to come back on his life and career with this special. INTRODUZIONE Lester Bangs in “Appunti di un fan istantaneo” diceva di Astral Weeks di Van Morrison: “Lì Van suona la chitarra acustica e canta canzoni scritte da lui con una profusione di poesia tale che secondo me Walt Whitman ne sarebbe fiero, e dà le piste a qualunque cosa Allen Ginsberg sia riuscito a sfornare negl’ultimi vent’anni e passa”. Lester Bangs non aveva peli sulla lingua, era uno che non conosceva mezze misure. Per lui, o eri un grande o eri una mezza sega. Per lui Van Morrison era degno di stare al fianco di Charles Mingus e Astral Weeks poteva tranquillamente competere in bellezza con tutti i capolavori della storia del rock. Era un disco, che difficilmente avrebbe capito una ragazza da una scopata e via, era un disco pieno di poesia, da ascoltare e riascoltare lentamente, e mai e poi mai da consumare con la velocità di una sveltina nei cessi di un bar. Forse troppo introverso e burbero per calcare le scene dello star system, Van Morrison, è ben lontano dai canoni della rock star da copertina. Lui, artigiano, filosofo, musicista. No Guru, No Method, No Teacher, era il titolo di un suo disco del 1986, ma anche qualcosa di più. Era ed è la sua personale filosofia, il suo stile di vita, un metodo non-metodo operativo che lo ha caratterizzato dai suoi esordi, fino ai dischi più recenti, spesso bollati come lavori di routine. Questa filosofia ha partorito la sua personalissima teorizzazione musicale del Modern Jazz Quartet Of Folk, che sublimava le sue radici nel folk mistico delle leggende celtiche e il suo viscerale amore per il soul, il rhytm & blues e più in generale per tutta la musica americana. Il rigore con il quale ha approcciato la musica e tutta la sua preparazione gli hanno permesso nel corso degl’anni di crearsi uno stile personalissimo che emerge sempre e comunque, in qualsiasi contesto si immerga, è capitato anche di recente con dischi come What’s Wrong With This Pictures che lo vedeva alle prese con il jazz, o con progetti paralleli come Skiffle Sessions con Lonnie Donegan o per andare indietro nel tempo con l’epocale Irish Heartbeat con i Chieftains. Nelle sue canzoni emerge sempre con forza un atmosfera di mistero, di confessione interiore in pieno strema of cosciusness, il tutto sempre sostenuto dalla sua voce duttile che domina la scena tanto nelle ballate tanto nei brani più movimentanti. A cercare singer-songwriter come lui, è un impresa impossibile, il granitico irlandese è riuscito a fondere la potenza espressiva del blues con l’arte letteraria di James Joyce con la poesia raffinatissima di Yates, trovando in William James una fonte di preziosa ispirazione. Il suo personalissimo modo di bilanciare orchestrazione e voce è diventato pietra di paragone per quella nuova ondata di crooner che ha visto nel commercialissimo Michel Bublè trovare il successo, guarda caso con una sciatta versione di Moondance. Pur rimanendo sempre nell’ambito della musica d’intrattenimento, Van Morrison ha dipinto capolavori musicali sofisticati, intensi, dove vocalizzi spericolati fanno da contrappunto ad arrangiamenti luccicanti, ricchi, sontuosi, quasi fosse alla costante ricerca di un capolavoro, di un opera complessa che lo consacrasse definitivamente alla storia della musica, una ricerca continua costante che a volta lo ha condotto a critiche feroci, in cui lo si tacciava di auto-indulgenza. Molto più semplicemente, Van Morrison, è andato dritto per la sua strada, fregandosene altamente di tutto e di tutti, del successo, della fama, dei capolavori. Van Morrison compose Astral Weeks a ventitre anni e costantemente sulla corsia di sorpasso attraversò in pochi anni una veloce alternanza di ups and downs tipici del music business fama, successo, ma anche delusioni, imbrogli, e disgusto. Finì per seguire le orme di Bob Dylan rifugiandosi a Woodstock con sua moglie Janet, per recuperare forze e ispirazione. Centrò l’obbiettivo con un altro capolavoro Moondance che raffinava la sua teorizzazione musicale. Dal soul dilatato ed etereo di Astral Weeks Van Morrison passò con Moondace ad un jazz-psichedelico dagli accenti barocchi, questi due dischi rappresentano senza dubbio gli apici della sua arte e senza dubbio, in qualsiasi lista degl’album seminali del rock, troverete almeno uno dei due. A partire dagl’anni settanta, la critica si fossilizzò quasi su questi dischi e qualsiasi disco di Van che non fosse avvicinabile ad uno dei due, venne bollato come inferiore. L’irlandese non ha mai tentato di clonare nessuno dei suoi dischi, e nonostante fosse tacciato anche di aver perso il suo profilo colto, continuava a ripetere che se fosse morto giovane sarebbe diventato certamente un mito, e che da vivo non si sentiva e non si sarebbe mai sentito un gran personaggio. Ovviamente anche la critica da classifica, non si è mai occupata di Van, in quanto molto raramente è passato dai primi posti per meritare la loro alta attenzione. Troppo difficile comprendere quella sua ricerca musicale, per il popolo bue, troppo pretenzioso per le menti alte. E forse aveva ragione il buon Lester Bangs a paragonarlo a Walt Whitman. Il suo percorso musicale si è snodato nel corso degl’anni alla ricerca di tracce musicali da approfondire alla ricerca di una forma espressiva che fosse allo stesso tempo drammatica, affascinante ma sempre piena di eleganza esecutiva. Lo stile maturo delle composizioni dell’irlandese è spesso disordinato, confuso, quasi il suo spirito fosse sotto il costante attacco di un tormento interiore. Il suo canto spesso nella stessa canzone passa dal sognante al riflessivo all’introspettivo, quasi fosse in preda ad una trance tutta musicale, altre volte è teso, roboante, fluttuante nella migliore tradizione del soul spinto da quel fuoco interiore della comunicazione di un messaggio. In Philosopher’s Stone dal sottovalutatissimo Back On Top del 199 canta “il mio lavoro è quello di tramutare il piombo in oro”, la sua musica è riuscita forse in questa impresa, Van Morrison è riuscito nella ricerca di una nuova forma di saggezza radicata nelle tradizioni e allo stesso tempo nel contatto vivo con la Natura che lo circonda. Mentre molti dei suoi colleghi e coetanei non erano sopravvissuti agli anni settanta o semplicemente erano spariti dalle scene o peggio ancora erano in preda agli ammiccamenti degl’anni ottanta, lui, il fiero irlandese, tirava dritto, ottenendo anche qualche riconoscimento. Per oltre tre decadi ha pubblicato almento un disco all’anno, sempre diversi l’uno dall’altro, incisi con musicisti diversi, e parallelamente a ciò rispetto anche agli anni sessanta e settanta, è mutato in parte anche l’atteggiamento dei critici, oggi molto più indulgenti con lui, tanto da fargli passare per buona anche qualche cedimento. A partire dalla metà degl’anni ottanta ha puntato dritto verso collaborazioni di prestigio con amici e colleghi, ma non ha perso di vista per un momento la sua progettualità come solista, mantenendo sempre e comunque i suoi fans con il fiato sospeso nell’attesa di ascoltare un suo nuovo album. Se non è marketing questo…
Nella trattazione delle singole ristampe sarà usato come criterio quello delle stelline secondo un comune standard che valuta: * (disco trascurabile) ** (sufficiente) *** (disco buono) **** (ottimo) ***** (capolavoro)
PRIMA PARTE Tupelo Honey (1971) **** Seppur a prima vista il titolo sembrerebbe omaggiare Elvis Presley (nativo di Tupelo, Mississippi), Tupelo Honey è un particolarissima qualità di miele a cui Van Morrison paragonava la sua dolce metà Janet Placet. Erano i giorni felici di Woodstock, quelli che avevano regalato l’anno prima quel capolavoro che era Moondance. Il tema che tiene uniti tutti i brani di questo album è ovviamente l’amore, analizzato in riflesso alla parentesi felice che stava vivendo la sua vita. Il disco oggi suona molto radiofonico, ma completamente diverso dal precedente Moondance. Per certi versi Tupelo Honey si pone sulla scia dei dischi di Carole King o di James Taylor, con Van che si diverte a fare il cantautore romantico, il rubacuori, abbandonandosi a deliziose ballate country con cori femminili che emergono in tutta la loro forza nella frizzante Wild Night. Il disco contiene alcuni piccoli gioiellini del repertorio dell’irlandese ovvero Old Old Woodstock e When That Evening Sun Goes Down. Il resto del disco brilla soprattutto nella parte centrale dove You’re My Woman, Tupelo Honey e I Wanna Roo You compongono una deliziosa suite che trova compimento nella splendida Moonshine Wiskey sul finale. La ristampa aggiunge due brani in più, ovvero una versione alternativa di Wild Night, per certi versi molto più efficace a livello musicale e una strepitosa resa del tradizional Down By The Banks Of The Ohio.
It’s Too Late To Stop Now (1974, registrato nell’estate 1973) ***** A dieci anni dal disco di debutto arriva anche il primo live, registrato tra il Rainbow di Londra, il Troubadour Civic Auditorium di Los Angeles, e il Santa Monica Civic Auditorium, nell’estate del 1973. Inizialmente previsto come triplo album, It’s Too Late To Stop Now è considerato come uno dei dischi dal vivo più belli delle storia della musica rock. Van Morrison sul palco è un vulcano in piena eruzione, supportato dalla Caledonia Soul Orchestra, una band stratosferica di undici elementi, mette in fila diciotto brani che ascoltati oggi compongono un lungo rito orgiastico a base di rock, blues e soul che culmina sul finale con la frase “è troppo tardi per fermarci ora!”. Brillano brani come Cyprus Avenue, completamente stravolta rispetto all’originale su Astral Weeks, alcuni estrati dal repertorio dei Them, sei cover di classici del blues e del soul e una travolgente versione di Gloria cantata in coro con il pubblico. Nella ristampa trova posto solo un inedito, Brown Eyed Girl, registrata al Troubadour di Los Angeles, ed è un vero peccato perché questa ristampa rappresenta un occasione mancata considerando la quantità e la qualità di materiale registrato all’epoca ed oggi ancora disponibile solo su bootleg.
Wavelength (1978) *** Wavelegth è l’ultimo album composto da Van Morrison negli States, quando fu pubblicato nell’ottobre del 1978, l’irlandese era già tornato a Londra da alcuni mesi. Il disco, pur essendo considerato come un album di rinascita dopo l’appannamento di Period Of Transitino, risente molto del sound imposto dalle radio FM di quel periodo, tanto che compare negli arrangiamenti anche il synth di Peter Bardens dei Camel. Il disco non è però avaro di sorprese con le prime incursioni nel reggae di Checkin’ It Out e Venice Usa, la splendida Santa Fe scritta in collaborazione con Jackie Del Shannon e le splendide Kingdom Hall, Hungry For Love e Take It Where You Find It. La ristampa aggiunge due ottime versioni alternative di Kingdom Hall e della title track.
Into The Music (1979) **** Se Wavelength annunciava la rinascita, Into The Music, la certifica definitivamente con la sua sintesi perfetta tra istanze commerciali di un sound soul dai tratti fastosi e il folk-blues delle origini. Il disco prende il nome da una biografia del musicista pubblicata nel 1975 e sarebbe stato più giusto che si intitolasse Into The Music Again, dato che Van Morrison in questo disco sembra tornato a ruggire come dieci anni prima. Diversamente da Period Of Transition in cui in cui ad essere malato era lo spirito in questo disco, l’irlandese trova la sua medicina, la musica. Il disco è caratterizzato da una fortissima ispirazione, quasi religiosa che pervade i brani riempiendoli di carica mistica ed erotica. Accompagnato da una mini-orchestra folk-jazz composta tra gli altri dal sassofonista Pee Wee Ellis, Toni Marcus agli archi, Mark Isham alle trombe, fiati e voci femminili, Van Morrison, tesse in questi brani complesse policromie sonore che spaziano dall’ honky-tonk di Bright Side Of The Road (Divertiamoci mentre possiamo/ Non vuoi aiutarmi a cantare questa canzone/ Dal limite scuro della via/ Al lato luminoso della strada)., al rhythm and blues commerciale di Full Force Gale e Stepping Out Queen, passando attraverso due gioiellini folk come la celtica Rolling Hills e Troubadours, quest’ultima dedicata ai poeti d’amore dell’antica provenza, che si riallacciano alla tradizione folk rivisitata in Veedon Fleece. A destare maggiore curiosità sono le quattro ballate che compongono al seconda facciata, come la preghiera laica And The Healing Has Begun che rappresenta uno dei vertici trascendentali della poetica e dalla musica di Van Morrison, o ancora la sontuosa Angelou in cui emerge in tutta la sua forza la sua versatilità vocale tra bisbigli e lamenti innamorati. Chiudono il disco l’epica And The Healing Begun e la riflessiva You Know What They Are Writing. Questi brani si avvicinano al free-form di Buckley ma con in più la voce dell’irlandese che cesella sulle ali dell’emotività momenti di intenso lirismo. Alla ristampa sono state aggiunte le nuove versioni di Steppin’ Out Queen e Troubadours.
A Sense of Wonder (1984) *** A Sense of Wonder, uscito a dicembre 1984, fu inciso in parte con la sua band e in parte con i Moving Hearts, una sorta di cooperativa di musica popolare irlandese. Seppur contagiato da alcuni vizi di forma tipici della produzione di Van Morrison di questo periodo, questo disco contiene diversi momenti interessanti. Il disco è pervaso da un simbolismo visionario, i brani sono quasi tutti dei vibranti blues onirici dai toni celtici che narrano dello stupore umano di fronte ai complessi misteri dell’animo umano e della natura. Tra contrappunti vocali gospel e dosi di rhythm and blues alla Tupelo Honey, l’irlandese piazza anche tre cover che mantengono a galla l’ispirazione attraverso un artigianato sopraffino. Rispetto ai dischi dei primi anni ottanta i sintetizzatori hanno lasciato posto all’organo, che rimanda al Ray Charles più soft e gli arrangiamenti hanno grande presa sull’ascoltatore, così come i testi che aprono una prospettiva interessantissima sulla sua rinnovata vena poetica. Il classico Tore Down A La Rimbaud (Malinconia alla Rimbaud/ Spero di raggiungere il mio scopo/ Tormento alla Rimbaud, sai quanto è difficile a volte./ Mi ha mostrato ogni tipo di forme e colori/ Mi ha rivelato diversi sentieri per lo stesso tragitto/ Mi ha dato indicazioni chiarissime/ Quando mi trovavo nella notte scura dell'anima./ Malinconia alla Rimbaud/ Vorrei saper tornare a scrivere/ Tormento alla Rimbaud, sai quanto è difficile/ Quanto è difficile continuare), e parla di ispirazione, di un artista bloccato ma che nel corso del disco dimostra il contrario. Brillano dunque Evening Meditation, uno splendido strumentale, la title track, Master’s Eyes e la conclusiva A New Kind Of Man. La ristampa non aggiunge molto, se non due versioni alternative di Crazy Jane On God e della title track. Sarebbe stato suggestivo vedere pubblicato il testo di Yates, musicato da Van e che gli eredi del poeta irlandese fecero cancellare dal disco, quando ormai era tutto pronto.
Avalon Sunset (1989) ** Seppur considerato uno dei maggiori successi di Van Morrison, Avalon Sunset è uno dei dischi meno interessanti dal punto di vista musicale. Certo il mestiere ha sostituito l’ispirazione come dimostrano il gospeld di Whenever God Shines His Light On Me o la depressogena I'm Tired Joey Boy, ma ogni tanto la zampata gli riesce e piazza il capolavoro come la sontuosa ballata da lucciconi Have I Told You Lately That I Love You e la spettacolare Da ring Night. Avalon Sunset fu l’occasione per l’irlandese di tornare sulla bocca di tutti, sia per le vendite sia anche per il bel duetto con Cliff Richards nella radiofonica Whenever God Shines His Light. Dalle bonus track arrivano una versione senza Cliff Richards di Whenever God Shines His Light e una strepitosa resa del classico When The Saints Go Marchin’ In.
Il 1999 vede Van Morrison alle prese con una nuova prova discografica, Back On Top, disco che segna il passaggio dell’irlandese dalla Polydor alla Virgin. E’ un ritorno alle radici al Rhytm & Blues e al soul, e rispetto ai dischi dei primi anni novanta rappresenta uno di quelli meglio riusciti rispetto anche all’altrettanto buono The Healing Game. Il disco, a torto, è stato fin troppo sottovalutato pur contenendo più di un brano da ricordare. E’ il caso ad esempio della bellissima Philosopher’s Stone, un brano che racchiude parte del suo credo e forse il segreto della sua arte, la travolgente Precious Time, dedicata a Fats Domino ma che nasconde una riflessione profonda sulla vita, o ancora le magnifiche When the Leaves Come Falling Down e Reminds Me of You, che rimandano dritto ai suoi capolavori degl’anni settanta. La ristampa aggiunge davvero poco al disco, con la versione soul di Philosopher’s Stone e una poco ispirata cover di Fats Domino, Valley of Tears.
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