A musical dictionary of the doom sound.
C’è un aggettivo che ritorna spesso nelle recensioni: “derivativi”; viene per lo più usato per indicare una band che scientemente riprende sound e ispirazione da band del passato senza aggiungere niente di personale.
I Blood Ceremony sono, in questo senso, quanto più “derivativo” si possa immaginare nel campo del doom, di quella musica cupa e ossessiva dominata dai ritmi lenti e dai riff di chitarra composti da poche pesantissime note.
Nel loro disco d’esordio lo spettro dei Black Sabbath e dei Black Widow è quanto di più vivido e forte così come i rimandi ai Jethro Tull degli esordi, in virtù del flauto suonato con sguaiata convinzione da Alia O’Brien, la cantante, non eccelsa questo va detto, e tastierista del quartetto.
Dalla fredda Montreal, questo quartetto ha dalla sua una carica impressionante, che sì fa leva sulla memoria musicale dell’ascoltatore, ma s’insinua presto nella mente scatenando una serie a catena di emozioni forti, grazie ad un suono orgogliosamente imperfetto e evocativo che contagia.
È la tensione il tratto dominante delle nove canzoni che compongono l’album: il lungo intro di organo che apre il disco sembra uscire da una colonna sonora di un film di Mario Bava e l’arrivo del riff di chitarra è come il primo piano dell’arma del killer un secondo prima che colpisca la sua prima vittima.
Tutto è conosciuto e prevedibile eppure piace e coinvolge e non disturbano i luoghi comuni del genere così come i titoli dei brani che sembrano rievocare altri titoli di canzoni ben più famose. Che la musica “derivativa” diventi il prossimo grande fenomeno di massa?
Jacopo Meille
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