L'etichetta inglese Erebus Records è uno dei nuovi competitors in tema di ristampe di album sconosciuti della storia della musica. Se pur semplici nel packaging e nella rielaborazione, le ristampe Erebus sicuramente un merito lo hanno: non solo hanno riportato sul mercato album sepolti nei meandri più bui della storia della musica, ma lo hanno fatto talvolta seguendo dritte tematiche. E' il caso del vasto spazio che l'etichetta Erebus riserva alla ristampa degli album del progressive rock giapponese. Se l'esaustiva guida “Japrocksampler”, firmata nel 2007 da Julian Cope, aveva aperto la strada, almeno teorica, alla conoscenza dei capolavori del Jap Rock, mancava spesso in Europa, o sicuramente in Italia, la possibilità di confrontare le parole di Cope con l'ascolto dei dischi a cui si riferivano. La Erebus ha identificato parte del suo target proprio in questo settore scarsamente coperto del mercato, ristampando numerosi album più o meno noti del rock giapponese. Primo fra tutti, l'album Eve, capolavoro del trio Speed, Glue e Shinki.
Alle orecchie dell'ascoltatore medio, che di blues e rock anglosassone ne ha macinato in lungo e in largo, la parola capolavoro potrà sembrare eccessiva. Invece è proprio Eve l'album che, a pari merito con Satori della Flower Travellin' Band, si aggiudica il primo posto tra i cinquanta dischi preferiti di Julian Cope in materia di Jap Rock. Pubblicato originariamente dalla Atlantic nel 1971, l'album segna il debutto del trio, un supergruppo creato dal produttore Ikuzo Orita con la partecipazione di Shinki Chin alla chitarra (già con Powerhouse e Foodbrain), Masayoshi Kabe al basso (ex Golden Cup) e Joey Smith a batteria e voce (ex Zero History). La tendenza innata nel prog rock giapponese alla sperimentazione e alla psichedelia si fonde qui con la capacità di attingere al bacino del blues. Distorsioni e stravolgimenti in chiave rock-psichedelica di blues acidi e primitivi, guidati dall'abbondante e non celato uso di droghe, accompagnano testi deliranti, a tratti macabri. Un mix dall'impatto forte e straniante in cui, però, non si può fare a meno di riconoscere la potente onda artistica e creativa.
Si scende alla posizione numero 30 nella classifica personale di Julian Cope con l'album di debutto dei Gedo, intitolato semplicemente con il nome del gruppo e originariamente stampato nel 1974. Registrato dal vivo, l'album unisce alla vena psichedelica tocchi di rock più duro, quasi hard rock. Il gruppo era un trio nella più classica delle formazioni, con Hideto Kanoh a chitarra e voce, Masayuki Aoki al basso e Ryoichi Nakano alla batteria. In bilico tra i Pink Fairies e gli Stooges con l'aggiunta di una dose extra di psichedelia, la band si conquistò un buon seguito in Giappone, specialmente nella scena dei bikers. Meno sviluppato come album rispetto a quello di Speed, Glue e Shinki, il debutto dei Gedo rimane comunque un esempio efficacissimo del jap rock più scuro e psichedelico.
Altro album in catalogo è il debutto dei Jacks, Vacant World, stampato su doppio cd. Nati nel 1966 come trio, il gruppo assunse poi nel '67 la formazione a quattro con due chitarre, basso e batteria. Considerati talvolta come gruppo dalle aperture più pop, per quanto il termine in questo ambito musicale appaia abbastanza fuori luogo, i Jacks pubblicarono il loro debutto nel '68, includendo il singolo “Marianne”. Influenzati dai Velvet Underground, i Jacks mettono a segno brani che sembrano più legati al folk, al rock tradizionale, alla forma canzone, per quanto filtrati attraverso cantati strascicati, improvvisazioni e deliri psichedelici. Un mix di stili che, a differenza di alcuni dei loro connazionali contemporanei, si focalizzò più sull'elaborazione di un sound locale e personale che sull'imitazione della musica anglosassone. Nascono così brani malinconici e lamentosi che puntano su distintivi testi in giapponese, elemento che segnò uno dei tratti caratteristici della band.
Melting Glass Box, invece, è un progetto unicamente di studio pubblicato originariamente nel 1970 per la URC Giapponese. Non incluso tra i cinquanta preferiti di Julian Cope, forse perché più derivativo rispetto alla musica occidentale, più pop e assai meno sperimentale, l'album è in realtà un'ottima prova dell'assimilazione Giapponese del pop anni sessanta, tanto da suonare a tratti più simili alle espressioni italiane nell'ambito di questo genere musicale che ai modelli anglosassoni. Con testi rigorosamente in giapponese, include brani come Nani ga nandaka wakaranai toki, dal melodioso cantato alla A Wither Shade of Pale del sol levante, oppure Kimi ha dare nanda, dall'andamento R&B alla Blood Sweat&Tears di Spinning wheel. L'album ha alti ma anche bassi, come i mielosi e poco riusciti arrangiamenti di archi di Marude kimi to onaji nopperabo de, oppure l'improbabile sonorità di Boku no migite no nihon no yubi. Brani come Michal no kami, debitamente arrangiati e interpretati all'insegna del bel canto, non avrebbero sfigurato, magari senza vincere, in una edizione anni Sessanta del nostro Sanremo. Proprio per questo, se pur meno sperimentale, l'album vale sicuramente un ascolto. E' una delle occasioni, non frequenti, per addentrarsi alla scoperta di ciò che era il Jap Rock al di là della conosciuta veste del progressive psichedelico e sperimentale.
Giulia Nuti
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