Quando Richard Brautigan scompare – suicida, nel 1984 – la sua stella di scrittore pare essersi alquanto offuscata. Trascurato dalla gran parte della critica statunitense (all’epoca ipnotizzata dalla crescente fama dei tre maggiori minimalisti rampanti: Raymond Carver, David Leavitt, Jay McInerney) e abbandonato dai lettori.
Eppure questo autore era stato, sul finire degli anni Sessanta, un guru del movimento giovanile hippie, capace di scrivere un best seller da oltre un milione di copie. Lo sappiamo bene: il ritmo vorticoso delle mode, il succedersi delle tendenze letterarie (talvolta trainate da forti meccanismi pubblicitari, in altri casi generate da misteriose correnti del gusto) possono gettare in un cono d’ombra anche i migliori talenti.
Nella storia letteraria Usa del secolo scorso la posizione di Brautigan è stata ormai fissata in modo preciso: la sua opera (una decina di romanzi ed altrettante raccolte di poesia) rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra la ribellione vitalistica incarnata dagli scrittori del movimento beat e l’esplosione della controcultura californiana partita da San Francisco. In Italia la sua fama è legata essenzialmente al suo titolo più famoso e venduto nel mondo, Pesca alla trota in America, uscito in origine nel 1967, giustamente ritenuto un capolavoro. Ma il suo primo romanzo, Il generale immaginario (pubblicato nel 1964 e tradotto in Italia da Luciano Bianciardi nel 1967) non è meno strepitoso.
Ambientato nella splendente regione di Big Sur – zona costiera della California centrale, a duecento chilometri da San Francisco – il romanzo viene srotolato sotto i nostri occhi come un imprevedibile e prezioso tappeto. Attraverso gli arabeschi ci guida la voce narrante del protagonista, una giovane ribelle scapestrato ma ingenuo, trascinato in un vortice di disavventure dall’ amico Lee Mellon (un pazzoide che si finge discendente di un ipotetico generale, eroe della guerra di secessione). Siamo nel pieno territorio della parodia e si respira una atmosfera euforica da favolosi anni Sessanta. La trama – che pure esiste e si fa seguire con divertimento – qui non conta troppo.
A regnare su tutto è la qualità ammirevole dello stile narrativo: il tono è brillante, le descrizioni dei luoghi, dei bizzarri personaggi, delle grottesche situazioni – anche nei dettagli – risultano sempre sorprendenti. I dialoghi sono innervati da una potente energia comica. Tutto è coloratissimo e scintillante. Davvero in queste pagine brilla il lato scanzonato e solare della controcultura giovanile americana nel decennio Sessanta appena iniziato, quando le promesse di una sessualità liberata ed il progetto di espandere i confini della percezione (anche mediante sostanze altamente illecite) lasciavano sognare l’ avvento di un mondo migliore. I delitti della setta capeggiata da Charles Manson ed il sanguinoso concerto di Altamont sono ancora lontani.
A distanza di quasi mezzo secolo dalla sua creazione Il generale immaginario – nella traduzione rinnovata da Enrico Monti – piomba nel panorama letterario italiano con la freschezza di un’opera nuovissima, luminosa e raggiante di spregiudicata giovinezza. Al protagonista Brautigan dona una saggezza capace di mescolare allegria e profondità : “ Avevo un libro con me, una cosa sull’anima. Il libro diceva che tutto andava bene se non morivi durante la lettura, se le tue dita restavano vive mentre voltavano le pagine. Io lo leggevo come un giallo”. E’ un romanzo ironico ma anche commovente, perché contiene l’utopia di un mondo più felice e luminoso di quello in cui siamo costretti a vivere oggi.
Stefano Loria
|
|