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Kraftwerk 17 maggio 2004, Gran Teatro di Roma
Era ovviamente attesissimo, il ritorno dei Kraftwerk. Atteso perché accompagnato dalle voci che narravano il grande impatto visivo del tour, atteso per i quasi due decenni di assenza dalle scene, ma anche perché durante questa lunga assenza almeno un paio di generazioni hanno abbracciato techno e hip hop, ovvero musiche che hanno ancora oggi un debito pesantissimo nei confronti del quartetto di Düsseldorf.
Gran Teatro riempito dunque, anche se non propriamente esaurito, da un pubblico eterogeneo: giovani, trentenni, cinquantenni, presenzialisti, electro-punk e amanti della dance (che non a caso si alzano presto per ballare lungo le file esterne alla platea). Un campionario di umanità assortita, a testimonianza della vastissima eco che la musica dei Kraftwerk ha esercitato e esercita tuttora. Viene da pensare che l’intento dichiarato da Florian Schneider nelle interviste di allora, quello di “creare la perfetta canzone pop per l’intero villaggio globale”, gli sia davvero riuscito e per giunta senza neanche accorgersene.
Il set pesca attraverso la loro carriera “elettronica”, riproponendo tutti i pezzi che da Autobahn in poi hanno reso il quartetto tedesco uno dei gruppi più influenti del Novecento. Si parte con The Man Machine, tratta dall’album omonimo, e i quattro si presentano allineati su una pedana dotata di quattro postazioni che non abbandoneranno mai. Tutta l’estetica sonora che Schneider e Ralf Hutter hanno creato, a partire da Autobahn in poi, è volta a rappresentare la progressiva deumanizzazione sottesa dall’utilizzo della tecnologia. Normale, dunque, che un loro concerto non risulti per niente datato nel 2004, epoca storica in cui i temi sullo sfondo della loro musica sono ancora perfettamente correlati ad un’idea di realtà che difficilmente, nella musica pop, è apparsa tanto chiara e definita. Visioni che oltretutto perderebbero forza se non fossero supportate da un potente impianto scenografico, rarissimo caso in cui il connubio immagini/musica ha un senso preciso e non appare allestito per essere fine a se stesso. Sull’enorme schermo scorrono dunque immagini d’epoca durante Autobahn (le auto sono chiaramente degli anni 70), computer grafica volutamente retrò in occasione di Radioactivity e Home Computer, e per contrasto all’avanguardia più sofisticata nel caso dei pezzi tratti da Tour de France Soundtracks, come Vitamin, Chrono e Tour de France Etape 1. La scaletta è fondamentalmente una sequela di successi, da Computer World a Trans Europe Express, Autobahn e The Model, e come sempre avviene con artisti dalle carriere pluridecennali, si sente la mancanza di quei momenti (Dentaku, Europe Endless, Spacelab) magari poco noti alla massa ma non meno fondamentali di altri nella costruzione dei loro album.
Dopo circa un’ora e venti minuti si chiude il sipario per la prima volta, il pubblico applaude furiosamente e inizia a reclamare a gran voce i tedeschi. Alla riapertura troveranno quattro robot automatizzati, effetto scenico tutt’altro che nuovo ma ancora di grandissimo impatto: è il momento della notissima The Robots, forse il momento più bello ed emozionante dell’intera serata.
Tempo qualche minuto, e una nuova chiusura si sipario, e arriva il momento di Elektro Kardiogramm, ovvero il miglior pezzo tratto da Tour de France, dove i quattro tornano in scena in carne ed ossa, anche se avvolti da tute di nylon illuminate ad arte per rendere un’immagine assiale della loro silouette. Sul finale regalano l’attuale singolo Aero Dynamik, che illustra chiaramente quanto techno e house siano nate di nascosto in Germania e, a chiudere, una lunghissima Music Non Stop. Chi c’era se lo ricorderà a lungo, chi è rimasto a casa si mangi pure le mani.
Bernardo Cioci
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