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Sufjan Stevens – Seven Swans
(Rough Trade/Self)




Che Sufjan Stevens si discosti dalla media attuale dei cantautori americani è fuori di dubbio. Lo testimonia una carriera breve ma a dir poco eccentrica, segnata da un album di debutto (A Sun Came, 2000) abile nello spaziare attraverso eterogenee direzioni geografiche della musica folk – dall’India all’Irlanda – un secondo (Enjoy Your Rabbit, 2001) quasi completamente elettronico e basato sui segni dello zodiaco cinese, fino alla consacrazione avvenuta l’anno scorso con Greetings From Michigan, the Great State Lake, il disco della scoperta critica ma anche commerciale e, pare, primo di una serie di cinquanta dedicati ad ogni stato americano! Un ruolino di marcia niente male per un artista che deve ancora compiere trent’anni.
Seven Swans, quarto album in quattro anni, arriva adesso a porsi come il lavoro più maturo e profondo che Stevens abbia partorito fino ad ora, e possiamo collocarlo fin da subito, senza abusare del termine capolavoro, fra i migliori dischi del 2003. Tema portante, ma a dire il vero pregnante sarebbe la parola giusta, è la religione; Stevens è infatti uomo di grande fede e questo vuole essere il primo momento in cui affronta esplicitamente la questione, anche se ad onor del vero un immaginario religioso e “obliquo” ha già infuso numerosi pezzi scritti in precedenza. Su Seven Swans la parola d’ordine è comunque semplicità, e le tematiche religiose affiorano attraverso dodici quadretti che non intendono mettere in luce le stridenti contraddizioni della fede o dolorose conversioni alla Dylan. C’è poi da dire che, stilisticamente, Sufjan è maturato ancora. La sua musica si muove ancora entro il folk più rarefatto, forse vicino più all’Inghilterra che agli Stati Uniti, ma le sue canzoni continuano ad aprirsi verso strutture via via più accessibili e decisamente più “pop” rispetto allo scarno folk appalachiano di Devendra Barnhart, l’altro gran nome del giovane rinascimento folk che si sta muovendo attualmente nell’America sotterranea. Piccoli mantra per voce e chitarra come A Good Man is Hard to Find o All the Trees of the Fields Will Clap Their, che a volte riportano a certi pezzi dell’Elliott Smith più psichedelico ed acustico, miscelano sapientemente zucchero pop con strumenti acustici, mentre la potenza nient’affatto retorica di Transfiguration, In the Devil’s Territory o He Woke Me Up Again potrebbe farle ricordare fra le grandi canzoni che il cantautorato cristiano-americano ha saputo regalare nel corso di parecchi decenni.

Bernardo Cioci




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