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The Boomtown Rats The Boomtown Rats/A Tonic For The Troops/The Fine Art of Surfacing/Mondo Bongo/V Deep/In The Long Grass
(Universal)
www.boomtownrats.co.uk
Proprio in questi giorni Bob Geldof si appresta ad annunciare il Live Aid II, ribattezzato Live 8. L’operazione, a scopo benefico ma artisticamente discutibile come del resto lo era anche l’originale, arriva a vent’anni esatti dal predecessore e si inserisce nel quadro di nostalgia dominante che sta ripescando un po’ tutte le icone degli anni ’80. E degli eighties il Live Aid (come il progetto gemello Band Aid, per intenderci quelli di Do They Know It’s Christmas…) è stato icona di primo piano, addirittura capace di fare ottenere al proprio ideatore una popolarità internazionale che al tempo non aveva ancora raggiunto grazie ai dischi. Geldof era infatti cantante e compositore di un gruppo irlandese emerso con l’ondata punk ma mai veramente convinto di esserlo, i Boomtown Rats, il cui catalogo è stato interamente rimasterizzato e rimesso sugli scaffali dei negozi proprio in questa prima metà del 2005. La qualità sonora delle rimasterizzazioni non è eccezionale, probabilmente perché il suono dei master era già in origine poco dinamico, ma è un difetto che viene ripagato con l’ottima cura riposta verso copertine e libretti, nonché dalla buona selezione di materiale extra. I Rats si formano in Irlanda nel 1975, su iniziativa del chitarrista Gerry Cott. Insieme a lui ci sono John Moylett (Johnnie Fingers, tastiere) Patrick Cusack (Pete Briquette, basso), Simon Crowe (batteria) e Garry Roberts (chitarra), con Geldof chiamato inizialmente a fare da manager ma quasi subito convinto a prender posto davanti al microfono. Emergono nel ’77 con l’omonimo album The Boomtown Rats. Equamente divisi fra asperità elettriche (i singoli Looking After No. 1 e Mary Of The 4th Form, fra le loro cose migliori di sempre) e direzioni più tradizionali (Close as You’ll Ever Be, Joey’s On The Streets Again, che scimmiottano Springsteen senza alcun timore), i Rats del debutto potevano sembrare sia dei giovani punk inglesi che una band da pub sufficientemente muscolare, e la stampa inglese li infilò immediatamente nel calderone molto ampio che partiva dalle superstar Sex Pistols e Clash, per finire con gruppi molto diversi per stile e provenienza come Saints, Sham 69 e Slits. Un’incertezza stilistica che sarà il tratto dominante della loro carriera, perché la band si dimostrerà incapace di mediare convincentemente fra un rock diretto e senza fronzoli e l’ecumenismo artistoide di Geldof. Anche al secondo album, A Tonic For The Troops, manca una certa coesione, ma i tre singoli scelti (Like Clockwork e She’s So Modern ancora aspre ed elettriche, Rat Trap altro tributo a Springsteen…) fanno il loro dovere e dimostrano di avere un impatto sulle classifiche britanniche, raggiungendo in ogni caso la top 20. Arrivati al terzo disco, The Fine Art of Surfacing, i Rats raggiungono un certo successo e si adagiano sopra una wave raffinata che non disdegna contaminazioni stilistiche più esotiche. Il delicato piano di I Don’t Like Mondays rimarrà il loro brano più noto, hit dappertutto tranne che negli USA, mentre emergono tentazioni funk in Nothing Happened Today, che forse richiama un po’ troppo da vicino i Talking Heads. In Having My Picture Taken, poi, la voce di Geldof viene lasciata libera di gigioneggiare ed inizia a farsi strada la sensazione di un gruppo troppo stretto per il proprio leader, che ne marca a fuoco la musica in maniera ingombrante. Sensazione che conferma pienamente Mondo Bongo, del 1981, in cui l’insistita piacioneria di Geldof punta dritto verso una mancanza di personalità che li condurrà poi verso la fine. Accade così che una cover ska di Under My Thumb dei Rolling Stones (ribattezzata Under Their Thumb) sia buttata lì per tenere il passo con il trend lanciato da Madness e Specials, oppure che il gruppo si diriga verso il reggae più stereotipato di Banana Republic o la marcetta funky Straight Up. Tutto mentre la ballata pianistica Another Piece of Red cerca di ripetere il successo di I Don’t Like Mondays, senza fortuna, e pezzi come Go Man Go o mettono in scena un tentativo goffo di scrivere canzoni pop infantiliste. Si tratta forse del disco più leggero ed inconsistente del quintetto, anche se da qui in poi tutte le loro uscite saranno discutibili. In V Deep, uscito nel 1982, Geldof fa di tutto per creare l’album più enfatico possibile, forse sull’impulso dei suoi primi tormenti umanitaristici. Se The Bitter End e Taking In Code potrebbero essere i pezzi con cui assaltare le radio (non accadrà), ovvero pop intelligente e scritto come si deve, He Watches It All e Never In a Million Years sono ballate condite con la massima quantità di retorica e pomposità, e Up All Night prende una parte di funk, una di new wave ed una di disco per fare ancora una volta il verso ai Talking Heads, con la voce di Geldof perfettamente confondibile con quella di David Byrne. Insomma, un fallimento che commercialmente non darà alcun segnale di vita. Svanito nel nulla V Deep, In The Long Grass arriva a chiudere senza appello la loro carriera. E’ il 1985 e il gruppo, ormai privo della verve pianistica di Johnny Fingers, vuole vendersi ad un pubblico maturo senza alcun successo. Declinata ogni speranza di fortuna commerciale, restano un paio di buoni pezzi movimentati (Dave, Hard Times) tuttavia incapaci di catturare la spigolosità incosciente dei primi dischi, mentre con le sbavature al sintetizzatore di Tonight e Drag Me Down i Rats si abbandonano ad una produzione dozzinale che ne ucciderà di fatto la resistenza nel tempo. Geldof ormai ha occhi solo per l’imminente Live Aid (e la carriera solista, s’intende) e di lì a poco stenderà un velo funebre sulla propria creatura, lasciandola più o meno nell’oblio fino ad oggi.
Bernardo Cioci
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