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The White Stripes – Get Behind Me Satan
(XL)
www.whitestripes.com



Nessuno avrebbe mai immaginato l’ascesa irresistibile dei due White di Detroit quando, all’insaputa del mondo intero, la coppia pubblicò il proprio debutto. Era il 1999, le quotazioni commerciali del garage-rock erano ai minimi storici, e un duo formato soltanto da chitarra e batteria non poteva ambire altro che ad un culto underground. Quattro anni e due dischi dopo è la volta del lodatissimo Elephant. Jack e Meg volano nelle classifiche, addirittura permettendosi di usare Seven Nation Army come cavallo di troia e infiltrarsi nelle playlist di molti DJ dance, l’ultimo posto dove ci si aspetterebbe di trovarne la musica: ironico, e fortunato, finale per uno dei gruppi più vocali nel disprezzo rivolto verso qualsiasi tipo di tecnologia digitale. Passano altri due anni, arriviamo al 2005 e a Get Behind Me Satan, atteso al varco da tutti coloro che a suo tempo hanno liquidato il duo come banali imitatori. Get Behind Me Satan colpisce per la sua ricchezza, e poco importa che il disco sia da annoverare come uno dei più veloci di sempre (pare che ci siano voluti due soli mesi per arrivare a prodotto finito, partendo dal nulla…) tanto in termini di composizione che di registrazione. E piace vedere un Jack White che non riposa sugli allori di uno stile chitarristico (e di un purismo) ormai lodato, spostando il proprio strumento naturale dietro le quinte per dare spazio a pianoforte e marimba, sonorità fino ad oggi poco associabili al marchio White Stripes. Nonostante le novità che promette, l’album si apre con l’incedere marziale di Blue Orchid, singolo furbescamente costruito per ripetere l’exploit commerciale di Seven Nation Army. Una chitarra fuzz insiste un giro che durerà tutto il brano, mentre la voce di Jack si avvicina al falsetto tipico del funk più movimentato. Apertura piacevole seppur convenzionale, che lascia però spazio alla prima sorpresa, My Nurse, un dolce tappeto di marimba che viene squarciato qua e là da violenti inserimenti di chitarra e batteria. Chi volesse indietro i vecchi Stripes può dirigersi a questo punto verso l’elettricità acida di Red Rain e Instinct Blues, cugina più violenta di quella Ball and Biscuit che di Elephant era un assoluto pinnacolo, ma i pezzi migliori saranno proprio quelli che prendono le distanze da sentieri già battuti. E’ il caso di Take, Take, Take e Forever For Her (It’s All Over For Me), due ballad molto arrangiate (per gli standard dei due) che rivelano il mai troppo nascosto amore verso il primo glam inglese, e The Denial Twist, stomper per piano, basso e batteria capace di suonare più rock di centinaia di gruppi chitarristici attualmente in circolazione. Come accade in ogni disco dei due, non tutto però è memorabile, Passive Manipulation altro non è che un giochino lungo 37 secondi in cui emergono nuovamente le scarse doti vocali di Meg, e Little Ghost un bluegrass troppo impregnato di ironia per essere preso veramente sul serio. Ma, mentre risuona la finale e bellissima I’m Lonely (But I’m Not That Lonely Yet), country pianistico sulla falsariga dell’ottima collaborazione con Loretta Lynn, appare ovvio che il disco porti molti dei suoi punti a casa. E’ rassicurante che i White Stripes riescano senza fatica a suonare contemporanei, senza per questo assomigliare a nessun altro nome che circola nelle classifiche pop del 2005, dimostrazione palese che ancora oggi si può partire dalla tradizione e ritrovarsi a creare musica originale.

Bernardo Cioci

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