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None of us are FREE

Bisogna averli vissuti quei giorni per capire come marciava la musica Rock, quarant’anni fa, quando la tecnologia si limitava ai pedali del wah-wah e al fuzz, molte valvole e pochi transistors. I chips erano delle patatine e i musicisti, capelli lunghi, barbe e pantaloni a zampa d’elefante si circondavano di muraglie d’amplificatori Marshall o Orange, usando principalmente chitarre Fender o Gibson. Usciti dalla covata eccezionale del British Blues, con Mayall, Graham Bond e Alexis Korner a fare da chiocce, uno stormo d’inglesi avrebbe marcato a fuoco la musica degl’anni a venire. Dai Cream ai Colosseum passando per i Led Zeppelin, senza entrare nel capitolo Rolling Stones, il Rock inglese bolliva come un vulcano prima di scivolare nella palude del Progressive. E’ passato quasi mezzo secolo, ma nessun movimento musicale é riuscito a dare quello il British Blues fornì al mondo. I Free, spesso considerati come una pallida copia dei Led Zeppelin, nascevano in questo contesto, senza sapere d’esser destinati al mito.

Uno dei momenti indelebili di quel periodo è l’attacco cassa-rullante di Simon Kirke in «All right now», uno dei cavalli da battaglia dei Free, nella fulminante versione di “Free Live”. Kirke è il musicista meno dotato dei Free, un batterista secco, metronomico, che consentiva ai solisti di sviluppare liberamente le loro trame, senza perdersi in un frastuono organizzato. Contrariamente alla moda dell’epoca, percuoteva una batteria spoglia, con un solo tom. Andy Fraser, recentemente scomparso, era uno dei grandi bassisti dell’epoca e poco aveva da invidiare a Jack Bruce, il genio dei Cream. Armato d’un grosso Gibson EB2D, il basso delle grandi orchestre di Rhythm’n’Blues degl’anni 50-60, riempiva le melodie dei Free. Venne scelto dagl’altri del gruppo perché a 15 anni aveva suonato con Mayall, viatico di sicuro talento. Dopo i Free fondò un gruppo dalle alterne fortune, gli Sharks con Chris Spedding, prima di sparire nell’ anonimato. Del chitarrista Paul Kossoff si può dire la stessa cosa; solo la presenza contemporanea di altri genî chitarristici, Hendrix, Jeff Beck, Page e Clapton per nominarne qualcuno, di lui appena più anziani, ne frenò la fama. Kossoff era un uomo contrastato, sensibile e non seppe sopravvivere alla follia di quegl’anni che lo trascinarono all’autodistruzione. Morì a soli 26 anni, nel 1976, stroncato da un malore su un volo tra New York e San Francisco. Non avrebbe più volato. Ai tempi dei Free, i suoi crescendo e la maniera di costruire gl’assoli mostravano una forte personalità, come in « Goin’ down slow » da “Tons of Sobs”, esempio di chitarrismo rigoroso, quasi limpido. Nonostante la sua prematura dipartita, ha lasciato un pugno di dischi notevoli come «Back Street Crawler», «The band plays on» e “Second Street”.

Il cantante Paul Rodgers è di gran lunga il Free più famoso. In quest’ultimi tempi é stato reclutato dai Queen per coprire le parti vocali dell’icona Freddie Mercury, ma si era già assicurato giorni felici con i Bad Company, un quartetto Rock di grande successo al quale si unì, accompagnato dal buon Kirke, dopo la dissoluzione dei Free nel 1973. Nonostante la compartecipazione di Boz Burrell (ex King Crimson) e Mike Ralphs (ex Moot The Hoople), i Bad Company non raggiunsero mai l’intensità e il carisma dei Free, pur facendo cassetta. Da solista, Rodgers ha inciso diversi album, tra cui vale la pena ricordare il tributo a Muddy Waters, con molti eccellenti ospiti, e la bizzarria del «Hendrix set» con Noel Schon, spalla di Santana. Seppur sottovalutato dal pubblico, Rodgers è uno dei grandi cantanti del Rock e la leggenda vuole che abbia rifiutato un ingaggio coi Deep Purple nel loro momento di massimo splendore.

Se non siete ammalati di completismo, non avrete bisogno di svaligiare una banca per assicurarvi quanto basta dei Free. Il primo “Tons of Sobs” (Island, 1968) riassume tutto quello che il gruppo farà nella sua breve carriera; accanto al Blues e al Rock venato di Blues c’è una componente quasi Folk che si materializza in ballate dal gusto tipicamente inglese. Nonostante s’illustri con Fraser nella composizione d’uno dei manifesti dei Free, “I’m a mover”, il cantante Paul Rodgers finisce per imporsi come l’anima di questo debutto scrivendo la maggior parte dei pezzi, inclusa una ballata dalle tinte fosche “Walkin’ on my shadow”. Ma sono nel succitato “Goin’ down slow” e in “The hunter” che i Free mostrano una maturità inaspettata per un gruppo esordiente. L’attesa della rivelazione durò tre anni e tre albums di pari valore, “Free”, “Fire and water” e “Highway”, prima che i Free partorissero il capolavoro. Come accadeva spesso in quegl’anni fu il disco dal vivo, “Free Live” (Island, 1971), a iscrivere i quattro nel ristretto club dei miti del Rock. La copertina disegnata a busta, con le facce dei quattro a mò di francobolli riflette bene la semplicità dell’epoca. Il CD rimasterizzato contiene titoli supplementari, ma già l’album bastava a far capire d’esser di fronte a qualcosa che sarebbe durato nel tempo. Rodgers canta come se fosse il giorno del giudizio; Kossoff sembra alla guida di una macchina, la sua chitarra, che rischia di scappargli ad ogni curva; ventiquattro cilindri animano il basso di Fraser che talora insegue Kossoff, tal’altra decide per la sortita solitaria. Con quei tre, in una selva di mid-tempo strascicati eppur bollenti, solo un batterista essenziale, quasi monolitico, come Simon Kirke poteva garantire la coesione. Subendo l’ingrato compito di scegliere, “Be my friend” e “Mr. Big”, due ballate rock lentissime, s’impongono all’ascolto. Prima di sparire, i Free lasciano un testamento “Free at Last” (Island, 1972), che bene riassume la loro storia musicale tra Blues, Rock e Folk. In molti apprezzaranno anche “Heartbreak” (Island, 1973), ma Fraser é già partito, la magia s’é rotta, squadra che vince non si cambia. Rodgers e Kossoff sembrano quasi liberati dalla soggezione d’aver tra i piedi un genietto come Fraser, ma John Bundrick alle tastiere e specialmente Tetsu Yamauchi al basso non possono competere con il passato. Gl’ingordi danarosi potranno buttarsi su almeno due compilations e altrettanti Best of, c’é perfino un cofanetto da 5 CD, usciti in tempi lontani e più recenti. Testomonianza visiva di un’epoca, nel video “The best of Free” (Island, 1989) ci son 18 minuti registrati all’isola di Wight durante l’omonimo festival. Correva l’anno 1970.

Luca Lupoli

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