. | Steve Howe INTERVIEW Steve Howe Steve Howe è in Italia per un breve tour di tre date. Lo chiamiamo in albergo venerdì mattina alle 11. E’ tranquillo, rilassato, gli piace stare in Italia, suonare per noi. Come prima cosa gli chiediamo se ha letto “La banda dei brocchi (The Rotter’s Club) di Jonathan Coe. Il romanzo è ambientato nella seconda metà degli anni Settanta, all’inizio dell’era di Margareth Tatcher. Gli chiediamo del romanzo perché gli Yes sono visti come il simbolo di uno splendido, anche se pesante, passato musicale, destinato ad essere spazzato via dalla rivoluzione del punk. Steve ci risponde che legge poco i romanzi, preferisce la saggistica. Del libro di Coe ha letto solo le prime pagine. Però ci racconta comunque come visse quel periodo di crisi, di trasformazione. Come ho vissuto? Che posso dire? Ho vissuto bene, sono sopravvissuto, non rimanendone troppo coinvolto. Arrivò il punk e non mi piaceva granché. In quel tempo stavamo spesso in USA in toumée. Il punk è una cosa che doveva essere, ma non mi accorsi molto della sua presenza giacché mi trovavo completamente da un altro lato del mondo musicale, tutto incentrato sulla vera musicalità, sul virtuosismo. E così ignorammo totalmente tutta quella immondizia, quel genere di musica che può suonare chiunque, con tre acordi. Ma questo non è per dire che non ci fu una rivoluzione, la quale, in un certo senso, continua ancora con i Libertines e i Baby Shambles, The Dirty Pretty Things e centinaia di altri gruppi. Noi ai tempi del grande successo del progressive pensavamo, grazie anche agli articoli della stampa specializzata, che ci fosse una grande rivalità tra voi, Emerson Lake & Palmer, i Genesis, i King Crimson. Poi tu negli anni successivi hai suonato con Steve Hackett, Carl Palmer, John Wetton. C’era quindi uno spirito di collaborazione, di scambio? Si, era così negli anni Settanta: il gruppo non apparteneva mai a Jon, a Chris o a me. La qualità dipendeva non dagli individui ma Tra le date in programma c’è anche il meeting di Sarzana, forse l’appuntamento più importante in Italia per la chitarra acustica. Parlaci di Steve Howe collezionista. Ho sempre comprato chitarre, anche troppe. Ho dovuto persino disfarmene, per quante ne possedevo, ma adesso ho di nuovo una collezione meravigliosa: chitarre di tutti i tipi, da tutto il mondo, ma principalmente americane, quelle per il rock'n'roll. Quelle le ho tutte. Ho anche chitarre europee e inglesi. Sì mi piace collezionarle. E le tue marche preferite? Amo le chitarre americane: le Gibson, le Martin, ma mi piace avere a disposizione tutta la gamma di chitarre perché questo mi permette di ottenere ogni sorta di sonorità. Non voglio un suono di chitarra, ma dieci. Quindi, le chitarre che amo di più sono quelle che mi permettono di realizzare più cose, come nel caso, per esempio, delle chitarre acustiche Martin. Le peculiariatà si trovano nelle mie orecchie. Io ascolto per cogliere certe caratteristiche, come per le tastiere. Prima c’era il pianoforte ma oggi nessuno si accontenterebbe solo di quel suono; come la tastiera odierna produce suoni che non le appartengono, così anche le chitarre sono suscettibili di enormi trasformazioni, al punto che, a volte, è difficile ascoltando una registrazione identificare il tipo di chiatarra, Stratocaster o Gibson che sia. E’ una questione di riconoscibiità e di tessitura. Se tutte le chitarre suonassero nello stesso modo sarebbe noioso, ma per fortuna i costruttori producono i propri strumenti in modi diversi. E per quanto riguarda altre corde come il mandolino, il bouzouki, la steel guitar? Ho suonato questi strumenti, ma non il bouzouki, però la steel guitar si, sin dagli anni Settanta. Ho una piccola collezione di questi strumenti, sono importanti per me. Non sono solo interessato alla chitarra ma a tutta la famiglia e alle sue propagini. La steel guitar, la pedal steel, il mandolino, e altri strumenti come il liuto appartengono allo stesso mondo: mi piacciono tanto ma non posso dedicarvi tutto il Hai cominciato a suonare e a incidere all’epoca degli amplificatori a valvole, ora vivi nell’era del suono digitale. Cosa pensi del rapporto tra l’arte e le diverse tecnologie? E’ una grande domanda. Non è molto facile dare un giudizio sintetico. Ci sono aspetti positivi e negativi. Non sempre gli sviluppi sono buoni, possono essere anche cattivi, come gli amici. Non c’è niente di puramente buono o cattivo in questo mondo, niente. Così non c’è niente di totalmente buono neI fatto che siamo passati al digitale. Nel periodo di transizione a molti non piaceva ma adesso siamo tutti abituati e apprezziamo il fatto che tutto sia molto pulito. Ma è anche un pulito da ospedale. Io amo che il suono sia come una casa, un posto amichevole, intimo, non un ospedale dove tutto è strapulito, strofinato e disinfettato. Con la tecnologia si sono avuti miglioramenti incredibili: con un computer, la registrazione fa sembrare quello che c’era prima come appartenente ai secoli bui; ma dobbiamo ricordare che, a fronte dei progressi, c’è gente a cui piacciono tuttora i Long Playing e le registrazioni completamente analogiche. Gli amplificatori a valvole sono ancora popolarissimi, li uso anch’io. E così penso che si tratti di una miscela tra buono e cattivo, ma, tutto sommato, più buono. La tua prima band importante, prima degli Yes, furono i Tomorrow. Che ricordi hai della scena psichedelica inglese nella seconda metà degli anni Sessanta? Ricordo parecchie cose. Era molto divertente, molta sperimentazione, molta improvvisazione. Tutto era in larga parte incentrato sull’incontro di personalità diverse, alcune delle quali destinate a diventare intermazionalemte famose, come Hendrix e i Pink Floyd. Ci trovavamo tutti nello stesso piccolo giro, animato da future star, anche se con un marketing migliore, saremmo già all’epoca potuti diventare più celebri. Intervista curata da Stefano Pogelli e Guido Zaccagnini e trasmessa a Radio Tre Suite il 19 maggio 2006 |
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