. Bruce Springsteen

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Bruce Springsteen
Milano, 12 maggio 2005 Forum Assago

Il cerchio si è chiuso.
Lo Springsteen visto, anzi ammirato, lo scorso 12 Maggio è un artista che ha definitivamente completato il suo percorso a ritroso nel tempo.
Un uomo che ha conquistato quelle libertà essenziali che andava cercando sin dalle inquietudini giovanili di “Born to run”.
La libertà, come uomo, di prendere esplicite posizioni politiche; la libertà , come artista, di potersi fare carico di tutto il grande “epos” americano e di candidarsi autorevolmente, dopo la scomparsa di Johhny Cash, quale ultimo Bardo di un’idea di America diversa.
Il progetto “Seeger sessions” ha la stessa valenza che, a suo tempo in pieno flower-power, ebbero i “Basement tapes” di Dylan: uno sguardo al passato, in cerca di un’identità per un paese oramai smarrito.
Ed è confortante vedere che il Boss abbia sentito comunque l’esigenza, a pochi mesi dalla conclusione del “Devils and dust” tour, di “riportare” queste canzoni alla gente.
Sorprendente poi che un autore del suo calibro (in poche parole: il più grande songwriter rock di tutti i tempi assieme a Dylan) proponga uno show il cui repertorio è per l’80% composto da traditionals, lasciando alle proprie composizioni un esiguo spazio.

Palco sobrio, pubblico in grande attesa come se non facesse poi grande differenza la veste in cui Springsteen si presenti.
Quando il concerto inizia con una vigorosa “Jesse James” ti rendi conto di quale sia il vero spettacolo: ben 17 (!) musicisti sul palco a suonare, cantare, ballare….
Signori, questa è la Seeger sessions band, un incontro bizzarro tra un gruppo folk uscito dall’antologia di Harry Smith, una sezione fiati rubata ad Allen Toussaint ed un rocker cinquantenne che strapazza la sua Takamine manco fosse una Telecaster!
Ed il concerto è un’esaltante concentrato di tutti questi diversi umori, una via di mezzo tra una festa campestre, un sermone religioso, un battesimo protestante, una rivolta sindacale ed un party cajun.
Springsteen vive profondamente queste canzoni, ed il pubblico risponde, come se appartenessero ad un repertorio consolidato, ad una memoria collettiva della quale tutti, nessuno escluso, sono partecipi.
E in mezzo alle meraviglie già proposte su disco, con strepitose versioni di “Oh Mary don’t you weep” e “John Henry”, il buon Bruce trova anche il tempo di piazzare una versione capolavoro di “How can a poor man stand such time and lives?” di Cooderiana memoria, un brano degli anni trenta che il chitarrista californiano incise nello splendido live-album “Show time”.
Ancora: rivisitazioni complete in chiave folk di alcuni classici springsteeniani quali una “Johnny 99” funkeggiante, una “Open all night” che diventa un talkin’ blues serratissimo, “If is hould fall behind” suonata come una ballata dei Pogues ed un travolgente “You can look” dagli imperiosi stacchi fiatistici.
Il finale riserva ancora sorprese: “Ramrod” in aria di Louisiana ma soprattutto la classica “When the saints go marchin’in” rallentata a dismisura, fino a divenire un’invocazione, una preghiera non solo per New Orleans ma per l’umanità intera.
La grande capacità di Springsteen di piegare e modellare alla propria poetica uno standard che più standard non si può.
E l’ulteriore bis di “Buffalo gals” è solo materia di cronaca: il concerto di fatto era già terminato, la benedizione già data, la luce già vista.
Quando Padre Bruce ripasserà da queste parti il prossimo autunno con la sua carovana di zingari,cercate di non perderlo: potrebbe essere la vostra ultima possibilità di Salvezza.


Massimiliano Larocca


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