Amazing British singer and guitar player brings back the cool sound of early sixties dancefloor. Sad to say that’s an Hard Time for the too good at heart, who knows beter than I...!
Interessante personaggio James Hunter: nel suo primo album, del 1996, Van Morrison, uno sveglio, aveva subito capito di trovarsi davanti a un ragazzo di talento e non solo lo aveva voluto con lui nel live “one Night iN san Francisco “ ma gli aveva restituito il piacere, partecipando all’esordio di James. Poi, chissà perché, più nulla, nonostante un altro paio di album
Adesso, con il cambio di etichetta, si torna a parlare di lui: James ha il merito di avere un tono vocale fresco, di essere uno straordinario chitarrista, dal tocco soffice se incisivo e dal tono rotondo e pulito. Sul lato opposto ha un problema: canta con facilità come solo Sam Cooke o il giovanissimo Steve Winwood sapevano fare, riproponendo le stesse cadenze e gli stessi trucchi vocali.
Vi parrà poco ma vi posso assicurare che non è cosa da poco, ci vuole del talento per sembrare un altro senza esserne una copia o un clone. Hunter riesce in questo.
Per questo suo ”People Gonna talk”, sono venuti in aiuto, nel bene e/o nel male, deciderete voi ascoltatori, un team di produzione che ha evidenziato i toni “antichi” del disco che pare esce uscito dal Flamingo Club una settimana dopo il celebre live di George Fame del 1964 (imperdibile disco della storia del Ryhtm & Blues britannico), mentre per gli arrangiamenti si sono scelte cadenze e moduli che riscoprono il vecchio Bluebeat, un ballo giamaicano, antesignano del Reggae, di moda nella Gran Bretagna, proprio nella stagione 1963 1964, subito dopo il Madison Time.
Risultato sorprendente perché ne guadagna l’atmosfera generale di “People Gona Talk“: rilassata, cool per essere più precisi, estiva, che piacerà ai Mod e alle Modettes. Addirittura gli arrangiamenti dei fiati adottando la formula dei due sax riporta a quel tipo di Rythm & Blues in auge a SoHo in quegli anni dei mitici sessanta.
Dire che Hunter sia un genio, come si è sentito dire in giro, è davvero un troppo: dire però che James Hunter è un talento, quello sì, è permesso. Scopriamo perché: “You can’ win” è forse il brano più bella della raccolta mentre la successiva “Riot in my heart” fa venire alla mente Stenie Winwood così chiaramente che non sai che pensare, “Tell her for me”è un Madison, la successiva “Talking ‘bout my love” pare il seguito di “if i had an hammer“ (che Sam Cooke interpretava usualmente dal vivo).
Qualcuno potrebbe obiettare che Hunter sia allora un mero copione ma non è così: tutte le 14 canzoni sono originali e James, aiutato da uno studio ben attrezzato e con idee chiare, il Tar Rag, nato dalle ceneri di una intera generazioni di sale di registrazione, che predilige queste sonorità retrò ma non troppe, ha indovinato una chiave, una reason why alla sua musica. Cosa che, per i tempi attuali, non è davvero poco.
Fosse giunto sul mercato all’epoca dei Dire Straits James Hunter avrebbe fatto successo senza perdere il suo very english mood, grazie a quel tocco bluebeat così sofisticato e affascinante. Pensate a band come UB 40 e al loro mix di suoni e colori. Oggi, nonostante belle canzoni come “Mollena “ che pare uscita dalla pena dell’ultimo Sam Cooke, o “don’t come back” molto buona nelle dancehall dedite all’acid jazz e al rythm & Blues, James Hunter potrebbe trovarsi a doversi accontentare di esibirsi in un qualsiasi Pizza Express della capitale britannica o in posti simili e a dover anche dire grazie.
Ernesto de Pascale
Qualcuno mi domanda chi è che in Italia potrebbe fare un disco così se solo ancora lo volesse. Il recensore ha la risposta pronta: Peppino di Capri.
E sarebbe un discone…
|
Track list
|