Si potrebbe iniziare questa recensione parlando del padre di Pieta, quel Greg Brown che, secondo il sottoscritto, è uno dei più grandi songwriters che l’America ci abbia donato negli ultimi 25 anni, autore di album capolavoro quali “Covenant” o “Slant 6 mind”.
Oppure si potrebbe anche iniziare parlando di Bo Ramsey, spalla storica dello stesso Greg Brown nonché produttore per Lucinda Williams, Kevin Gordon, Jeffrey Foucault ed altri, ed ora compagno (nella vita e nell’arte) della stessa Pieta.
Si potrebbe.
Invece la nostra recensione inizia parlando della prima canzone dell’album, “#807”: una short-story in una canzone di tre minuti e mezzo, un B-movie in bianco e nero.
La chitarra di Ramsey che lancia strali notturni nell’aria, la voce pigra ed indolente di Pieta per una canzone magica, colonna sonora di un’ultima notte sulla terra.
Ma non è solo questo a fare il disco, ci sono la poetica “This old dress”, la springsteeniana “4th of July”, gli ossessivi riffs blues di “How many times”, per chiudere con l’altro capolavoro del disco, “Far away”, un’altra di quelle canzoni che ti trasportano in una dimensione altra, nel tempo e nei ricordi.
Se poi a ciò aggiungete la voce di Iris De Ment e la chitarra 9 corde di Greg Brown vi renderete conto che ci troviamo di fronte ad un album splendido, un ritratto dell’America più marginale, di quel profondo Midwest dove la vita sempre ripetersi all’infinito.
Giunta al terzo album, Pieta Brown si insinua nel solco di quel cantautorato roots al femminile che, a partire dal boom di Lucinda Williams,s ta reglando agli appassionati sempre nuovi nomi da ricordare.
Ma a ciò Pieta aggiunge una personalità, una voce e(scusate se è poco) un background alle spalle (leggasi padre) che poche possono vantare.
Imperdibile.
Massimiliano Larocca
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