. Gabor Szabo - Spellbinder
RISTAMPA
Gabor Szabo - Spellbinder
(Impulse/Verve)

Riascoltare questo disco a quarant’anni esatti dalla sua uscita su etichetta Impulse ha rinnovato le sensazioni avute quando lo ascoltai per la prima volta.
Manca solo il leggero e caratteristico fruscio del vinile ma di tutto il resto, contenuto ed emozioni, non si è perso niente: segno che la musica è giusta.
Bene ha fatto perciò Verve a riproporlo su cd, tra l’altro ad un prezzo davvero conveniente.
Gabor Szabo, nato in Ungheria nel 1936, ha avuto il momento di maggior fulgore a cavallo fra gli anni ’60 e i ’70 quando, trapiantato a vent’anni in California, dopo aver frequentato il Berklee College of Music, si è rivelato come uno dei più originali chitarristi di quel periodo.
Il suo stile ha seguito e assimilato anche le mode di quegli anni ma, a differenza di altri artisti che ne hanno approfittato per rifarsi un look soprattutto di facciata, Gabor è riuscito a calarsi nelle sonorità etno-pop allora in voga adattandole al linguaggio jazzistico, senza che né una parte né l’altra ne soffrisse.
Gusto, tecnica raffinata mai sopra le righe, ricerca sonora ed espressiva sullo strumento, tutte caratteristiche che rendono subito riconoscibile Szabo e lo fanno apprezzare sia come musicista che come innovatore.
Per rendersene conto basta ascoltare le sue composizioni: in “Spellbinder”, che dà il titolo all’album, c’è già tutto di lui e “Gypsy Queen”, dall’incalzante ritmica latina, anticipa il discorso di Carlos Santana (il quale, non a caso, la inciderà in “Abraxas” unendola a “Black Magic Woman”), mentre “Cheetah”, calda e rilassante, ci regala un indovinatissimo mix di colori asiatici, indiani e californiani.
Fra gli standard metterei al primo posto “My foolish heart”, bellissima canzone usurata dalle infinite interpretazioni avute da migliaia di altri musicisti, eppure qui tornata a dire qualcosa di nuovo, grazie al trattamento di Gabor e al sapiente uso che egli fa delle corde vuote in risonanza, a imitazione del sitar, un effetto suggestivo nel quale era maestro.
Molto bello anche “It was a very good year”, sublimazione della nostalgia in musica.
La blasonata sezione ritmica (Ron Carter al basso, Willie Bobo alle percussioni e Chico Hamilton alla batteria) sostiene e asseconda egregiamente il lavoro del solista.
Szabo è purtroppo scomparso nel 1982 a soli 46 anni ma la sua musica è più viva che mai e supera a pieni voti la prova del tempo.
Chi ancora non conosce questo disco se lo procuri: ne vale la pena.

Rinaldo Prandoni

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