. Bad girl of rock’n’roll

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Bad girl of rock’n’roll

Pochi giorni fa è apparso su un noto sito internet italiano di informazione musicale un annuncio che ha destato la nostra curiosità. Un discografico è alla ricerca di una “bambina cattiva”, di una: “…Ragazza “fantaerotica”, ipnotica, glaciale, infuocata, antipatica, “vissuta”, smarrita.” Nel 2006, in Italia, c’è qualcuno che ha pronte delle canzoni a cui manca una faccia, un volto ed una voce che dia loro sostanza e visibilità. Cosa c’è dietro questa riscoperta dell’iconografia della bambina cattiva? Perché adesso?

Il rock ha sempre promosso un’immagine ambigua, si è divertito a giocare con essa e l’ ha fatta diventare uno strumento promozionale che adesso può apparire perfino banale, ma che all’epoca riusciva realmente a scioccare e, di conseguenza, a catapultare sui giornali musicali e non l’artista o il gruppo di turno. L’ambiguità, il poter giocare sulle preferenze sessuali era però una possibilità concessa agli uomini: Mick Jagger ed i suoi baci in pubblico a Lou Reed e David Bowie; Bowie stesso dei primi anni ’70; Robert Plant e David Lee Roth con il loro machismo macchiato di piume di struzzo rosa fino ad arrivare a Freddie Mercury solo per citarne alcuni. Alle poche, troppo poche, icone femminili del rock come Janis Joplin, Tina Turner, Grace Slick e perfino la stessa Nico, non è stato data questa opportunità; e non perché non l’abbiano colta, ma perché la società inglese ed americana, era già rimasta scioccata dal fatto che delle donne potessero salire su un palco non per cantare una sdolcinata canzone d’amore ma per intonare un inno alla droga come ‘White Rabbit’ o stravolgere uno standard come ‘Summertime’. Sono però loro, inconsapevolmente, che gettano le basi per la definizione dello stereotipo di “bad girl”: la fragilità ed il gusto per gli eccessi di Janis; l’aggressività sul palco di Tina; il gusto per la provocazione di Grace mentre di Nico l’algida freddezza. Sono questi gli ingredienti principali che rendono “cattiva” una bambina. Agli occhi di chi però?

I “trasgressivi” anni ’70 relegavano ancora la donna ad un ruolo di sudditanza rispetto all’uomo. Potremmo dire che, negli anni ’70, dietro ogni bad girl c’è un uomo. Basti pensare che tra le icone trasgressive femminili di fine anni ’60 c’erano le “Faster Pussycat” dei film di Russ Mayer, che altro non erano che una sorta di versione sadomaso del mito delle amazzoni - motocicliste vestite di pelle nera - frutto della fantasia di uno tra i cineasti più maschilisti della storia del cinema. L’immaginario femminile era in mano agli uomini. Nel 2001 in ‘Almost Famous’, film che racconta l’iniziazione al giornalismo rock di Cameron Crowe, regista del film, attraverso il racconto delle vicissitudini on the road di una band nel corso 1973 una groupie si autodefinisce “aiuta gruppo”, auto annullandosi. La sua presunta trasgressività, la sua scelta di vivere fuori dagli schemi è subordinata alle esigenze di una band composta da soli uomini. La stessa Janis canta canzoni scritte da uomini e che la vedono sempre sedotta ed abbandonata se non in rarissimi casi come in ‘One Night Stand’ o ‘Move Over’. La sua fragilità è espressa attraverso l’amore non corrisposto, la sua difficoltà, peraltro riconosciuta anche nella vita reale, di relazionarsi con gli uomini.


C’è infatti un uomo dietro la creazione di una delle bad girl band più conosciute d’America: Kim Fowley; cantante, DJ, manager, produttore, musicista e molto altro ancora, Fowley, ha attraversato ultimi quaranta anni della storia del rock, contribuendo a creare i miti e le leggende di Los Angeles (iniziando a suonare in un trio con Phil Spector nel 1957, cantando nel primo disco di Frank Zappa) la città cui San Francisco ha consegnato lo scettro della capitale rock della West Coast. Los Angeles è la città degli eccessi e dei locali alla moda; è la città del Roxy di Rodney Bingenheimer e del Sunset Boulevard. E’ la città delle pubbliche relazioni e dei party sulle colline di Hollywood intorno a piscine dalle forme più incredibili. Los Angeles sono gli studios, il cinema, il gusto per l’immagine.

Kim Fowley decide che è tempo di “creare” un gruppo rock femminile dopo aver incontrato la giovane e quattordicenne Kari Krome ad un party di Alice Cooper. Kari Krome si presenta come poetessa e scrittrice di testi per canzoni; una sorta di Gerald Bostock di ‘Thick As a Brick’ dei Jethro Tull, solo un po’ più grande e, fatto più significativo, reale, vera. L’idea alla base del gruppo è semplice: 5 ragazze vestite di tute aderenti di pelle da motociclista e corpetti di pizzo che suonano - bene o male non è importante - le proprie canzoni che parlano di sesso, sbronze e vita on the road. E’ innegabile che alla base del look e dell’idea ci sia negli occhi di Fowley il fenomeno glam inglese che aveva portato al successo Marc Bolan e David Bowie per poi velocemente scivolare nella bubble gum music di Sweet, Slade (che Fowley aveva scoperto nel suo soggiorno in Inghilterra mentre contribuiva alle registrazioni del primo album dei Soft Machine) e Gary Glitter ed anche l’ascesa dei Kiss, la prima vera e propria band più dedita al marketing che alla musica con la quale Fowley collaborerà scrivendo con loro ‘King Of The Night Time World’ (titolo emblematico) e ‘Do You Love Me’ presenti nell’album ‘Destroyer’ del 1976.

Il primo nucleo del gruppo vede Kari affiancata dall’amica quindicenne Joan Jett (vero nome Joan Larkin) alla chitarra e da Sandy West (vero nome Sandy Pesavento) alla batteria. Fowley elimina Kari - che rimarrà legata alla band come compositrice - non appena trova una ragazza più in linea fisicamente con la sua idea di band, e continuerà a giocare con i componenti fintanto che non troverà la formazione ideale con Lita Ford alla chitarra, Cherrie Curie alla voce e Jackie Fox (vero nome Jacqueline Fuchs) al basso. Il successo è breve ma intenso, troppo intenso per le stesse protagoniste: solo tre dischi pubblicati ed un top single in Giappone. Le ragazze si rivelano più “cattive” del previsto, specialmente fuori dal palcoscenico: sono all’ordine del giorno gli scontri non solo verbali tra Cherrie Curie e Lita Ford (vero nome Carmelita Rossanna) che si contendono la palma di più carina del gruppo, o la lotta per la leadership musicale sempre con l’agguerrita Ford e Joan Jett. Saranno proprio quest’ultime a tentare la carta della carriera solista che darà a Joan Jett la breve soddisfazione di scrivere un hit single ‘I Love R’n’R’ che pochi anni fa ha ripreso Britney Spears proprio per dare a se stessa un’immagine più trasgressiva e “cattiva”. Quanto a Lita Ford, il suo contributo alla causa rock si è ridotto ad una manciata di dischi pseudo heavy metal, a essere la ragazza di Tony Iommi dei cavernosi Black Sabbath e la moglie di Chris Holmes, chitarrista degli oltraggiosi Wasp. Per ironia della sorte, i suoi maggiori successi arriveranno a fine anni ‘80 con un singolo: ‘Kiss Me Deadly’ scritto e prodotto da Mike Chapman, produttore di Sweet e Suzi Quatro, dal sound molto simile a quello delle Runaways.

Il reale vincitore di questa esperienza è Kim Fowley che aggiunge al suo curriculum l’ennesima idea vincente e d’effetto confermando come a metà degli anni ’70 è ancora trasgressivo vestire delle ragazze come dei motociclisti, come degli uomini quindi, o metterle sul palco praticamente nude, proprio come vorrebbe un pubblico di motociclisti quotidiani frequentatori di strip bar. Un gruppo di bad girl, altro non è che la materializzazione di un sogno erotico maschile peraltro poco fantasioso. Eppure bastano questi pochi ingredienti per convincere allora la casa discografica ad investire sul gruppo che ancor oggi è visto come un esempio, magari ancora acerbo, di girl rock band. Ma in tutto questo non c’è niente né di femminile in né di trasgressivo. Volendo fare un paragone ardito ma non troppo, le Runaways sono una sorta di risposta rock al successo televisivo delle Charlie’s Angels.

Se l’America non resta mai indifferente alle stimolazioni sonore e visive dell’Inghilterra, anche la terra d’Albione, con modi meno appariscenti non esita a far propria un’idea pensata dai cugini americani. Suzi quatro è la bad girl che scala le classifiche inglesi prime a tedesche poi. Americana di Detroit e, a differenza delle Runaways, musicista professionista fin da teenager nei Pleasure Seekers insieme alle sorelle Arlene e Patti. Nei primi anni settanta la band cambia nome in Cradle e viene notata dal produttore inglese Mickie Most, a cui tanto deve Jimmy Page quando era ancora solo il turnista più richiesto degli studi londinesi, che non esita a offrire a Suzy un contratto come artista solista. Sarà proprio Most a costruire l’immagine della musicista suggerendole il look “all leather”, affidandola alle cure musicali della coppia Mike Chapman e Nicky Chinn, gli autori dei maggiori successi degli Sweet e facendola entrare nel calderone del glam rock. Contrariamente a Sweet, Marc Bolan e dello stesso Bowie, a Suzy Quatro, in quanto donna, non è permesso giocare con la sua sessualità. Può presentarsi sul palco vestita da motociclista, ma deve rimanere assolutamente certo che sia una donna a cui, senza giri di parole, piacciano gli uomini. A differenza delle Runaways, Suzi al look da biker, abbina la capacità di suonare realmente (è una brava bassista) ed una manciata di canzoni, sciocche ma orecchiabili che scalano le classifiche inglesi e che le permettono di avere la copertina di Rolling Stone pur non vendendo un disco in America. La carriera di Suzy subirà poi un’impennata con la sua partecipazione al telefilm ‘Happy Days’ in qualità di ragazza di Fonzie, che le darà notorietà anche negli U.S.A. facendola divenire una sorta di icona pop rock e fonte d’ispirazione per le stesse Runaways, almeno per quello che concerne il look. Suzy continuerà a produrre dischi ed a girare per il mondo, trovando fortuna in Germania, da sempre luogo dall’impensabili preferenze musicali (dalla Barclay James Harvest, a tutta la scena metal epica).

L’avvento del punk in Inghilterra sconvolge profondamente non solo il panorama musicale ma anche il modo di pensare e di vestire di un’intera generazione. Finalmente la trasgressione, la volontà di annientare usi e costumi e modo di pensare prende il sopravvento. L’anarchia, la volontaria non accettazione delle regole morali e civili, diventa a sua volta modello di vita a cui le nuove generazioni si rifanno. Il desiderio di trasgressione proprio del rock di fine anni’ 60 viene inconsapevolmente ripreso ma svuotato di ogni utopia e positività. La frase cantata dagli Who in ‘My Generation’: “spero di morire prima di diventare vecchio” diventa di nuovo attuale ma viene interpretata nella sua accezione più nichilista, esasperando il mito della autodistruzione e dell’annientamento. La stessa industria musicale per un brevissimo periodo pare scordarsi di qualsiasi regola di marketing e cavalca l’onda del punk beandosi poi dei guadagni.

E’ in questo contesto che esplodono sulla scena inglese le Girlschool, vere ed uniche bad girl britanniche. Musiciste, orgogliosamente non belle, si sono formate sul finire del punk e si fanno porta voci di un hard rock sporco, molto vicino a quello dei Motorhead, band a cui sono legate non solo perché condividono i servigi dello stesso manager, Dough Smith. Le Girlschool diventano così l’alter ego femminile della band di Lemmy, condividendo fama e successo nelle chart inglesi dei primi anni ’80 e addirittura producendo insieme un ep: ‘The St. Valentines Day Massacre’ che raggiungerà la top five. Le quattro Girlschool non temono confronti con nessuna band della nascente New Wave Of British Metal: sono più rumorose degli Iron Maiden, più volgari dei Motorhead, più “sataniche” dei Venom; è l’attitudine, più dell’immagine a renderle “cattive”. Come le Runaways, le “cugine americane”, optano per un look tutta pelle nera e borchie, senza però alcuna concessione alla lingerie o qualsiasi elemento pseudo femminile: Kim Mc Auliffe e Kelly Johnson, le due leader della band, sono due biker, sono volgari ed irriverenti quando vengono intervistate, non hanno bisogno di fare gli occhi dolci o di mostrare qualche centimetro di pelle in più per essere notate o considerate trasgressive. Come Lemmy, Eddie “Fast” Clarke e Phil “Philthy Animal” (i 3 Motorhead) sono rocker, non più donne. In questo aspetto, le Girlschool sono diverse dalle precedenti girl band, non utilizzano in modo strumentale la propria femminilità per aggraziarsi il pubblico maschile, ma addirittura prendono un gruppo maschile, tra i più trasgressivi e di moda del momento, e su di questo plasmano la loro immagine. In questa operazione c’è però volontarietà e nessuna strategia di marketing. Le Girlschool sono così: vere “bad girl” consapevoli. Anche per loro il successo durerà solo pochi anni: i cambi di formazione ed un reale inaridimento della vena compositiva le allontanerà dalle zone alte della classifica e delle preferenze dei giovani metallari, malgrdo le collaborazioni illustri come quella con Noddy Holder e Jim Lea degli Slade assoldati come produttori per l’album ‘Play Dirt’ del 1983. Solo recentemente la band è tornata on the road nei circuiti minori inglesi in una formazione che comprende tre quarti della band originale.

Cosa resta delle “bad girl” oggi? Che erano un prodotto di una società maschilista: gli uomini le hanno pensate e create, il loro grado di trasgressione era comunque regolato da una mano maschile (quella di un manager scaltro o quella del pubblico, prevalentemente maschile, che comprava i dischi o andava a vedere i concerti) e solo il punk ha, almeno in parte, messo in discussione. In Inghilterra negli anni ’80 la funerea Siouxie e l’andorgina Annie Lennox di ‘Sweet Dreams’ hanno portato avanti, quanto meno nel look più che nell’atteggiamento, l’immagine di “cattive”.
A queste sono susseguite Nina Hagen, la “bad voice” of rock più che “bad girl” e l’outsider Wendy O’ Williams, eroina punk che, come le sue colleghe degli anni ’70 non ha esitato a farsi scrivere una canzone come ‘It’s My Life’ da quell’esperto di marketing che è Gene Simmons, bassista dei Kiss, e massimo esponente del pensiero maschilista con il suo motto: “nel dubbio, fotti”.
L’America dal canto suo non è stata a guardare con Courtney Love, che ad un inizio davvero trasgressivo fatto di concerti infuocati ed infarciti di sesso on stage, ha poi preferito sterzare verso l’atteggiamento da rock star decadente e nevrotica schiava del suo personale mito di Stevie Nicks dei Fleetwood Mac e la sua compagnia nelle Hole Melissa Auf Der Mar, bassista, innamorata di Suzy Quatro della quale sembra conoscere tutte le pose e che rispolvera il look a metà tra la lolita e la hippie per la gioia dei molti maschietti che si accalcano nelle prime file dei suoi concerti. L’unica artista capace di adottare comportamenti che erano appannaggio maschile e di applicarli ad un strategia di marketing spietata senza essere relegata ad un ruolo di outsider altri non è che Madonna che nel 2006, dopo aver passato la quarantina, si può permettere scalare le chart con un disco, ‘Confessions From A Dance Floor’ che è una vera macchina da guerra pubblicitaria e di presentarsi sul palco nel prossimo tour crocifissa su una croce per la gioia degli sponsor, del suo conto in banca e dei suoi fan e l’orrore dei ben pensanti e della chiesa.

Ed in Italia? Due sono i nomi che vengono in mente e che sono tutt’oggi attuali per motivi completamente diversi: Loredana Berté e Gianna Nannini. La prima con la sua gestione anarchica della vita privata e della carriera è riuscita a mantenere intatto il suo animo trasgressivo e cattivo, tanto che oggi, nel suo imperversare nei reality show ed in ogni trasmissione televisiva che la inviti, riesce a dare ancora una scarica di energia ed a non risultare patetica malgrado i vestiti con i quali si presenta da lei ovviamente pensati, disegnati e, se le volgiamo credere, cuciti personalmente. Quanto alla Nannini, è come un uragano nel Sud Pacifico: arriva all’improvviso, quando meno te lo aspetti, e nella sua imprevedibilità è capace di mietere distruzione e caos. Il suo ultimo album infatti ha scalato la classifica italiana senza alcun preavviso ed il tour è stato tra i più seguiti di questo inizio 2006. Gianna è una bambina cattiva dal ghigno alla Keith Richards, e come il chitarrista della più grande rock’n’roll band del mondo, è una sopravvissuta che porta con orgoglio le cicatrici della sua vita sempre sul filo del precipizio. E come Keith, quando decide di cantare una canzone romantica, come il singolo ‘Sei Nell’Anima’, è irraggiungibile, perché si sa, i cattivi, in fondo, hanno il cuore tenero, Sempre; ed in Italia, almeno per il momento, vendono pure.

Jacopo Meille




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