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Tracce di una vita in blues: Duke Robillard e l’intervista di Massimo Baraldi Duke Robillard è uno dei più stimati chitarristi blues in circolazione, e per lodarne il talento si è scomodato persino B.B. King in persona. Poi, se uno nutrisse qualche dubbio, ci sarebbero le varie nominations ai Blues Music Awards e il Grammy del 2007 da ricordare. E che dire dei suoi Roomful of Blues? E la Legendary Blues Band? E i Fabulous Thunderbirds? Se cominciassimo a parlare delle sue collaborazioni, poi, non la finiremmo più: da leggende del passato come Pinetop Perkins, Jimmy Witherspoon, Ruth Brown o Jay McShann ad artisti come Bob Dylan, Tom Waits, John Hammond, e Scott Hamilton. Una cosa è certa: Robillard è un musicista che ha lasciato un segno ovunque lui e la sua chitarra abbiano messo piede e, infaticabile, ha tutte le intenzioni di seguitare a farlo. Lo incontro al Teatro Pax di Lurate Caccivio, in occasione della sua partecipazione alla rassegna “Musica in Collina” di Giulio Bianchi, e ad accompagnarlo c’è una formazione di tutto rispetto: il vecchio compagno Doug "Mr. Low" James al sax, che non necessita di alcuna presentazione, Bruce Bears alle tastiere, Jon Ross al basso e Mark Teixeira alla batteria. MB: Duke, sei cresciuto negli anni d’oro del rock 'n' roll e so che i tuoi genitori non volevano saperne di comprarti una chitarra elettrica. Tu non sei stato lì a recriminare e… te la sei costruita da solo! Ti va di parlare di quei giorni? DR: Era circa il 1954… il rock ‘n’ roll cominciava a farsi sentire e, bè, mio fratello aveva dieci anni più di me e una Fender Stratocaster. Quando era fuori per un appuntamento, se ne andava a giocare a football o semplicemente a farsi una birra con gli amici, io entravo in camera sua e mi esercitavo. È così che ho imparato. Mia madre non voleva sentir parlare di questa mia passione perché ero troppo serio al riguardo. «Voglio diventare un chitarrista», non facevo che ripeterlo e non pensavo ad altro. Secondo lei non era affatto una buona idea. E così, sì, me ne sono costruita una con gli attrezzi di mio padre, tanto per cominciare. Quanto a mio fratello, era assolutamente all’oscuro di tutto quanto… e il giorno in cui mi sono deciso a mostrargli cosa sapevo fare, bè, ha venduto la chitarra (ride). MB: Era il 1967 quando hai fondato i Roomful of Blues… intanto la “British Invasion” avanzava tra gravi problemi sociali e persino una guerra. Come sono state accolte le prime blues band americane dal pubblico locale? DR: A dire la verità prima di me sono venuti personaggi come Paul Butterfield, che sicuramente mi ha influenzato. Lui e gli altri erano un po’ più vecchi di me, diciamo che viaggiavano sui 22 quando io ero solo sedicenne ma, certo, possedevo i loro albums ed erano il mio riferimento. Con i Roomful of Blues, però, ho cercato di fare qualcosa di diverso. Cominciammo col Chicago Blues, sì, ma decisi di metterci anche un po’ di R & B… io collezionavo 78 giri di quella musica e pensai che fosse il genere perfetto: abbastanza blues, molto ballabile, c’erano i fiati, qualche tratto jazz e i testi spesso erano divertenti. Il rhythm & blues possedeva tutti gli elementi che la musica dovrebbe avere, e così ho cominciato a suonarlo. MB: Nella tua carriera hai attraversato tutte le sfumature del blues, ma secondo me il tocco che ti contraddistingue è strettamente legato al periodo swing - jumpin' e allo stile di T-Bone Walker. Sbaglio? DR: Quello è lo stile in cui mi sento più a mio agio. Mi piace suonare anche stili diversi, ma direi che il mio è proprio da là che viene. MB: Con Bob Dylan il blues e la musica roots incontrano la poesia. Ho notato che hai incluso la sua “Everything is Broken” nel tuo “World Full of Blues”… com’è stata la tua esperienza con lui in “Time Out Of Mind”? DR: Quella con Bob Dylan è stata una grande esperienza, ma non posso dire altrettanto per il produttore Daniel Lanois. Quando Bob mi chiamò per rimpiazzare Daniel alla chitarra loro avevano già cominciato a registrare l’album, e a lui la cosa non piacque affatto. Le liti tra loro due erano frequenti, durarono fino a quando restai e il motivo ero sempre io. Una gran seccatura. Ma per quanto riguarda Dylan, fu assolutamente fantastico: gli piacque il mio lavoro e mi divertii molto. MB: Dylan è famoso per il suo “Never Ending Tour”, ma so che anche tu sei sempre sulla strada, con una media di 250 date l’anno. DR: Era così una volta, ma ora non più. In America molti clubs hanno chiuso, non ci sono più tante opportunità come in passato. Ora puoi suonare solo nei fine settimana. Vent’anni fa ero impegnato cinque o sei giorni a settimana, ma poi è cominciato il declino e ancora non si è arrestato. Quando siamo in tour ci esibiamo praticamente tutte le sere, nel Nuovo o nel Vecchio Continente, ma questo vale per circa due mesi l’anno. Il resto del tempo giriamo nel New England o facciamo un sacco di strada per suonare nel fine settimana. I tempi sono cambiati. Non c’è più molto interesse verso questa musica, sai. MB: No? DR: Restano gli appassionati, certo, ma non è che escano tanto. Il pubblico è invecchiato. Vogliono gli spettacoli presto e li vogliono nel weekend, è dura schiodarli di casa gli altri giorni… se accade è solo in città dove non mi vedono da un pezzo, in quel caso sono disposti a fare un’eccezione. Io sarei ancora disponibile per tutte quelle date, ma non ci sono più. MB: Nel 2006 te ne sei andato su e giù per il vecchio Sud con Tom Waits! Come sono andati quei dieci concerti? DR: È stato un ottimo tour. Lavorare con Tom è divertente, così come lo è suonare la sua musica. Certo è molto eccentrica, impararla è dura perché devi suonarla come lui vuole che sia suonata, ma quando ci riesci è un vero spasso! MB: E di Tom Waits che mi dici? DR: Tom è un brav’uomo. È un uomo di famiglia, ora (ride)! Ha qualche figlio e sono tutti quanti in gamba… uno di loro suona la batteria, e lo ha fatto anche nel tour. Tom ha un gran senso dell’umorismo, mi divertivo anche solo a stargli intorno. MB: Qualche anno fa il rockabilly ha conosciuto dei buoni momenti grazie a una nuova generazione di musicisti… mi riferisco a band come gli Stray Cats e, naturalmente, a Robert Gordon. Com’è andata con lui? E cos’è successo al rockabilly? Sembra essere scomparso un’altra volta! DR: Non sono davvero dentro quel circuito, non saprei dirlo… ma ho suonato con Robert Gordon per un periodo relativamente breve, e la sua musica mi piaceva. Era un tipo divertente, ai tempi ci siam fatti un po’ di concerti insieme. Dovevamo anche venire in Italia, se non sbaglio, ma poi decise di cancellare il tour. Era abbastanza normale per lui fare questo tipo di cose. Dal canto mio dovevo lavorare, così misi su un mio gruppo e partii con la Legendary Blues Band, con cui registrai un paio di album. MB: Chi decide in quale direzione deve andare la musica? I discografici o gli artisti? DR: Nessuno potrà mai rispondere, credo. Normalmente funziona che quando salta fuori un buon pezzo le case discografiche cercano qualcuno in grado di farne una copia, per poi instradarlo sulla stessa via verso la sua fetta di successo. La formula però non si applica a me e alle cose che suono (ride)… il nostro è un genere che se avesse una visibilità adeguata potrebbe essere molto più popolare: è “contagioso”, lo ascolti e ti fa sentir bene, ti coinvolge. Ma l’industria ha accantonato il blues, ormai. Questa domanda riguarda il business, ma non il tipo di business che mi riguarda (ride)! MB: E coi tuoi com’è andata a finire? Cos’hanno detto dopo che hai ottenuto i riconoscimenti che meritavi? DR: Mio padre era tranquillo… sapeva che avevo talento ed era ben lontano dal preoccuparsi. Tutt’altra storia con mia madre… ma quando mi vide alla televisione pensò “Va bene, ora può anche suonare. Ce l’ha fatta.” (ride). Massimo Baraldi Lurate Caccivio, 11 aprile 2008
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