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Intervista a Marshall Chess
di Ernesto De Pascale
Leonard Chess come molti americani veri o presunti tali - la famiglia Chess veniva dalla Polonia - voleva tutto nuovo: vita, case, macchine, donne, abiti, cibi, musica nuova. È quindi apparentemente un controsenso che la Chess record, che noi conosciamo per aver totalmente contribuito all’’ espansione del blues elettrico, avesse iniziato la propria carriera da una musica vecchia o quantomeno gia datata negli anni 50 come il blues. La prima istanza di Leonard fu onorare una necessità, dare cioè alla gente ciò che la gente voleva, o meglio, ciò che il pubblico nero voleva, la propria musica. La ricerca di novità non lo abbandonò però mai anche se negli anni sessanta non riusciva a capire il desiderio di tanti giovani bianchi di suonare il blues di ispirazione nera e venire a registrare nei suoi studio di South Michigan Avenue invece che frequentare studi più avanguardisti. Certo è che quando intorno al 1955 Leonard incontra dopo mille insistenze e reticenze Chuck Berry ha una illuminazione. Ciò che di nuovo stava cercando lo aveva trovato senza aver fatto neanche un passo, gli si era parato davanti nella persona di Berry, raccolto letteralmente dalla strada - o meglio dal marciapiede davanti al 2120 di South Michigan Avenue. Berry era un giovanotto che trasformava i licks di piano di Otis Spann in frasi chitarristiche, ma soprattutto era un ragazzo che scriveva testi apparentemente senza contenuti. Dietro quell’ assenza si celava però uno stile nuovo: una scrittura fatta di slogan, gli slogan di una nuova vita che Leonard non conosceva ma intuiva. La vita a tempo di Rock & Roll.
Con le canzoni di Chuck Berry (e quasi contemporaneamente quelle di Bo Diddley) la Chess rappresenta quindi non più un genere, il Blues, ma un movimento, il Rock & Roll. Diventa cioè leader nell’’azienda culturale americana, anticipando a sua insaputa i caratteri di integrazione. A differenza dei suoi partner discografici del’epoca Leonard con Berry entra però in una sorta di hyperselling mode che nessun collega avrebbe potuto contrastare. Ecco il secondo termine di grandezza della Chess Record, guadagnato attraverso la presenza nel roster artistico di Berry : una qualità competitiva sul mercato che avrebbe visto antagonisti solo nella famiglia Ertgun a New York City. Secondo uno stile tutto ebreo, Leonard, crea una rete di interessi e trame che porterà con se, in parte inviolata, fin nella tomba, mi racconterà molti anni dopo nella sua casa di Tunisgah, upstate New York, il figlio Marshall.
“Al funerale di mio padre - mi dice - c’erano tutti. Anche quegli artisti che nel corso degli anni erano passati dall’’amore nei suoi confronti all’’odio. E non erano lì per onorarlo ma per vedere cosa ne sarebbe stato della Chess Records, di ciò che loro avvallavano essere i loro diritti. Io però andai al funerale di mio povero babbo con un quaderno rosso appresso, quello dove papà teneva i conti : cinquanta dollari per il carrozzerie, cinquanta per l’amante, cento per gli abiti, mille i per la scuola, cinquecento per rifare il tetto di casa. Tutti anticipi che i nostri artisti pensavano non dovessero essere conteggiati a progetti terminati e dischi venduti. Credimi Ernesto - mi dice con il sorriso a denti stretti sulle labbra - appena lo videro, tutti abbassarono la testa e vennero a farmi le condoglianze sottovoce!”
Questa era la discografica di un volta e questa era la Chess, una etichetta che ebbe bisogno di un 19enne per cambiare le carte in tavola, così come ne ha ancora bisogno ciò che resta della discografia di oggi. Nasceva la Teenage Nation.
“Io ho imparato il mestiere di produttore ascoltando i dialoghi fra mio padre e Chuck Berry fra un brano e un altro nei vecchi master di allora”, confessa a questo cronista Marshall Chess a proposito di quei frammenti che la raccolta della Hip-O-Select ripropone non integralmente, e prosegue “ mio padre entrava in studio con Chuck la mattina e usciva la sera. Solo chi era là dentro sapeva cosa accadeva e lo studio era off limits a tutti, lo fu anche a me per molti anni. Ma non nascondo che solo molti anni dopo capii che era una segregazione dovuta al buon fine della session!”.
Marshall Chess il cui primo merito, all’epoca teenager come Berry, fu convincere il padre a trattare con un editore inglese per il catalogo Chess presso quella terra aprendo così la porta agli anni sessanta, ai Beatles, agli Stones e al rock inglese in generale, aggiunge poi una riflessione che distilla bene il ruolo fondamentale della Chess nell’industria discografica dei tardi anni cinquanta.
“Come si distingueva una azienda discografica major da una indipendente nei cinquanta? - si chiede e si risponde Chess - Una major company aveva un sistema verticalizzato di lavoro. Ma in un momento di grande cambiamento come furono i cinquanta le major erano solo troppo grandi per rispondere in tempo reale alle esigenze di un pubblico che andava preso al volo e catturato. La Chess - mi spiega - fu la prima a lavorare come una Major basandosi però su convinzioni totalmente da indipendente: perché mio padre e mio zio erano convinti che ci fossero soldi anche fra i neri, perché a loro, a noi, quella musica piaceva e piace, perché era un lavoro divertente anche se faticoso, perché ci piaceva e ci piace rischiare, perché nessuno poteva mandarci a casa, licenziare o farci chiudere se non i nostri eventuali insuccessi e per mille altri motivi compreso decidere a che ora svegliarsi e forse perché in qualità di immigrati che ben sapevano cosa era la persecuzione si sentivano gli unici Americani (come Nasahi ed Amehet Ertgun d’altronde!) in grado di formare delle partnership con i neri”. E conclude “Ci voleva però un personaggio come Chuck Berry per fare il grande salto. Già nel 1956 mio padre e mio zio avevano capito che Muddy Waters sarebbe stato per loro un vitalizio ma, da bravi ebrei, volevano giocarsi la partita e Chuck Berry fu la persona giusta al momento giusto”. E mi saluta con un ultimo commento “ Mio padre era un vero regista, in grado di tirar fuori la miglior performance da un artista e, credimi Ernesto, non era facile. Si registrava a due tracce, se sbagliavi dovevi ripetere tutto, più volte suonavi un brano peggio veniva. Il segreto era tirar fuori il massimo da tutti e tutti i metodi erano permessi. Specialmente con uno come Chuck Berry, Un genio, ma anche una emerita testa di cazzo!!!”.
Ernesto de Pascale
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