. | FESTIVAL Il chitarrista che rimpiazzò Dio “Clapton is God”, questa era il graffito che marcava le vicinanze del mitico Marquee a metà degli anni 60. Nemmeno ventenne, Eric Clapton era già considerato un fenomeno agliinizi di una lunghissima, ancora in corso, carriera irta d’ostacoli ma anche di grandi soddisfazioni. In quella fucina di talenti che erano i Bluesbreakers di John Mayall, una dei padri del British-Blues, Clapton sarebbe stato la stella più alta ma forse non la più splendente, e come spesso succede, il talento che tracimava dai Bluesbreakers spesso si trasformava in continue diatribe tra il leader e i suoi musicisti. Clapton se ne andò per altri lidi e venne rimpiazzato seduta stante da un altro giovane di belle speranze, tale Peter Green che non tardò, sorprendendo molti, a imporsi come il nuovo fenomeno negl’anni 60 ogni tre minuti c’era una qualche novità in un’altra pietra miliare del British Blues, il disco “A Hard Road” dei John Mayall’s Bluesbreakers. Niente male come debutto, ma Green si sentiva già pronto a formare la sua propria Blues band, fiducioso di poter imporsi e, al tempo stesso, impaziente di tracciare nuove strade. Così nacquero i Fleetwood Mac, considerato come una propaggine dei Bluesbreakers c’era la sezione ritmica dei Bluesbreakers John McVie e Mick Fleetwood - che presto virarono verso un Blues decisamente psichedelico che s’allontanava via via dai canoni sacri del Blues Chicagoano. Green Sforna qualche canzone che farà la sua fortuna: “The Supernatural” ancora coi Bluesbreakers, “Albatross” e “Black Magic Woman” portata a memoria immortale da Carlos Santana, “Oh well”, “man of the world” e “The green Manalishi”, ma soprattutto incide un album totalmente visionario “The end of the game”. E qui si ferma la prima vita del chitarrista che rimpiazzò Dio. Insieme alla fama e al successo anche economico, come quasi tutti i musicisti dell’epoca, Green si butta a capofitto negli stupefacenti. Detto en passant, abbandona i Fleetwood Mac uno dei gruppi più remunerativi della storia del rock. Qualche viaggio di troppo e forse una certa predispozione alla malattia mentale mascherata da crisi mistica, o viceversa, lo allontanarono da tutto e tutti: dal 1970 Peter Green diventa un fantasma, un iceberg che ogni tanto riemerge per qualche apparizione allucinata. Sarebbe bastato per farne un altro mito, ma Green, da qualche parte alla ricerca di una sua normalità, negl’anni 90 riemerge timidamente con un gruppo quasi narcotizzato, “Peter Green and the Splinter Group”, incidendo diversi album. Anche un “Robert Johnson’s songbook” non brilla per brio e originalità. Spentosi il fuoco sacro, Peter Green sembra aver trovato una sua velocità di crociera che non ha niente a che vedere con il chitarrista esplosivo che fece le scarpe a Clapton. Mantiene molti fans, tra pubblico e musicisti, come Gary Moore, che ha inciso il suo miglior disco “Blues for Greeny” proprio tributandolo a Green. E non potrebbero esserci due chitarristi più differenti dei due! La buona notizia è che all’inizio del nuovo secolo, Green è sempre con noi. In contraddizione a ciò che si dovrebbe umanamente sperare, noi vorremmo vederlo tornare indietro nel tempo, ricominciare da “the end of the game”, mistico e fuori rotta come una foglia nella tormenta. Un bel documentario, “Peter Green: Man of the World” prodotto da BBC Four e girato da Henry Hadaway potrebbe delucidare qualche mistero e aiutare a comprendere questo straordinario quanto ermetico musicista.
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