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Intervista a Tokyo Rosenthal
Fresco della pubblicazione del suo nuovo e riuscitissimo Ghosts (Rock & Sock), il cantautore Tokyo Rosenthal traccia un ritratto di sé e racconta come ha realizzato uno degli album più importanti della sua carriera.
Mi piacerebbe iniziare con una breve introduzione alla tua musica in your own words per i lettori italiani: chi è Tokyo Rosenthal? Come ti definiresti? Sono anni che cerco di capire chi è Tokyo Rosenthal. Forse dovresti chiederlo al mio psicologo (ride). Non mi piace autodefinirmi e rinchiudermi in una categoria. Detto questo, sono un cantautore americano e musicista. Lo faccio fa trent'anni ma il mio maggiore successo è arrivato negli ultimi cinque. La mia canzone “Edmonton” ha segnato un punto di svolta e di riconoscimento, mi ha aperto le porte della città di Edmonton, in Canada, e la strada verso un tour nazionale sponsorizzato. Da lì sono progredito rapidamente, con tre album e tour regolari.
Come ha iniziato a fare musica agli inizi? Ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte a sei anni e poi mi sono spostato alla batteria da ragazzino suonando in diversi gruppi. Il pianoforte mi ha consentito di passare facilmente alla chitarra da adolescente e suonare poi altri strumenti a corda come il mandolino. Sono stato molto influenzato da Byrds, Dylan, CSN&Y, The Band e tutto il movimento country in generale. Il gruppo di maggior successo in cui ho suonato in quel periodo è stato Harpo and Slapshot, un trio di Rhode Island. Scrivevo anche all'epoca, ma penso che le mie canzoni fossero orrende. Ad ogni modo la MCA non la pensava così e mi fece un contratto da autore quando avevo 19 anni, anche se i miei brani non sono mai stati registrati da nessuno.
Ghosts è un bellissimo album. Pensi che qualcosa stia cambiando attorno a te nella percezione di te come artista? Grazie per le parole sul mio disco! Spero che la percezione di me stia crescendo, se non cambiando. Se le persone parlano di me e fondamentalmente apprezzano i miei dischi, io sono felice. Per essere felice mi basta avere persone come te che si preoccupano abbastanza della mia musica da farmi queste domande, e essere paragonato come autore ad alcuni dei miei eroi in numerose recensioni mi fa sentire che come artista vengo preso sul serio.
Anche se Ghosts non è un concept album, di cosa parla? E' un disco molto introspettivo. Parla di persone nella mia vita che sono morte (House on the river), famiglie vicino a me che ancora vivono (Still she thanks God), problemi economici (Mister tell me 'bout the great depression), amicizie (I can't readya, Feelings don't know any age) e esorcizzare i miei propri demoni (Ghosts, Inside your skull).
C'è un argomento principale o semplicemente qualcosa che ti piace affrontare nelle tue canzoni a questo punto della tua carriera? Non comincio da nessun tema. Comunque poi si sviluppa da solo. I matrimoni gay sono stati un tema controverso quando ho scritto “Love won out” ma non è stato il tema principale del disco. In questo album il tema “oscuro” sembra quello dominante, anche se non intenzionalmente. Ma musicalmente trovo il disco abbastanza eclettico anche se i testi non lo sono. C'è rockabilly, musica roots, jazz, country. E alcuni recensori hanno scritto che “I can't readya” è molto anni '60.
Mi racconti qualcosa della collaborazione con Al Perkins che suona la pedal steel sul disco? E' stata mandata dal cielo. Siamo entrati in contatto tramite il mio coproduttore/ tecnico del suono Chris Stamey. Avevo bisogno della pedal sul disco “Love won out” e ho chiesto a Chris se conosceva qualcuno. Quando ha detto Al Perkins sono praticamente svenuto essendo un grandissimo fan suo e di tutte le band in cui ha suonato. E' una grande persona oltre ad un bravo musicista. Per quanto riguarda la musica, è stato come se fosse dentro la mia testa e ha suonato esattamente ciò che io mi immaginavo nei diversi brani. Su “Inside your skull” gli ho chiesto di fare un riff country nel solo in opposizione a quello più fuzz della strofa e lui lo ha arpeggiato subito. Ha dato alla canzone un feeling totalmente diverso in quel punto.
Il tuo rapporto con la tradizione del genere Americana? Vedo l'Americana come un genere molto ampio a questo punto della storia, che va da Emmylou Harris a Willie Nelson fino ai Grateful Dead. Cerchiamo tutti radio che suonino la nostra musica e che non siano Top 40, quindi siamo tutti sulla stessa barca. Non sono tanto sicuro della parte che riguarda la tradizione. Appartengo alla Americana Music Association ma non sono sicuro che sappiano cosa farci con parte del mio materiale perché chiaramente non rientra nella loro “scatola”. Tuttavia, la classifica europea di Americana, la Euro Americana Chart, ha inserito Ghosts al quinto posto subito dopo la sua pubblicazione. Credo che in Europa i giornalisti siano più aperti dei puristi statunitensi, comunque anche lì la situazione sta cambiando.
Hai vissuto in posti diversi, da Los Angeles a New York. Che contributo hanno dato queste diverse città alla tua musica? Più che i posti, hanno contribuito le persone con cui ho suonato. A Rhode Island mi ha influenzato molto Mike Wells ma veniva dall'Indiana. Per cui aveva poco a che vedere con Rhode Island in sé, ma più con il suo background country. Suonavamo insieme in Harpo and Slapshot. A Los Angeles il grande Alan Feldstein e Chris Hillman hanno messo il loro timbro sul mio stile. I musicisti del North Carolina hanno cambiato il mio suono negli ultimi 4 anni. Bobby Britt, che suona il fiddle sul mio disco e Chris Stamey hanno avuto molta importanza.
Ghoosts è molto intimo ma alterna momenti di trascinante groove. Come hai bilanciato le due cose? Devi fare attenzione alla scaletta e al fatto che i passaggi da un brano all'altro siano naturali senza confondere l'ascoltatore. Si dedica molto più tempo a questo di quanto il consumatore pensi. Dall'altra parte, con così tanto download di singole tracce oggi, devi evitare che qualcuno senta una canzone e si faccia da quella un'idea di te del tutto sbagliata. Da una parte dello spettro c'è “there is no perfect love”, pura Americana, dall'altra I can't readya e Feelings don't know any age che sono pop e jazz.
Che mi dici della parola “celebrate” scritta sul retro della cover? E' incisa in una roccia in una fontana nel mio giardino. Mentre Ben George stava scattando la foto per la copertina ha immortalato anche quella pietra con l'acqua che ci scorre sopra. La foto mi è piaciuta ed ho pensato che fosse una buona chiusura per l'album : “celebrate life and move on”, celebrate la vita e andate avanti.
Hai suonato in Europa. Qual'è la risposta europea alla tua musica? Senza offesa per il pubblico americano ma preferisco quello europeo. Apprezzano di più l'Americana in generale e sono ascoltatori migliori. Ottengo più passaggi radiofonici in Inghilterra ed Europa che a casa. Ho suonato in Inghilterra, Scozia, Olanda, Germania e sto lavorando ad altri paesi per i tour futuri.
E per quanto riguarda l'Italia? Ci hai mai suonato? Non ancora ma vorrei tanto. Sono mezzo italiano e la mia famiglia viene da Potenza per cui sarebbe fantastico fare un tour italiano. Ho parlato con diversi agenti, ci sto lavorando.
Mi racconti qualcosa dell'unico brano che non hai scritto te, Going on Saturday? E' stata originariamente registrata da Atzec Two Step, un gruppo che suonava spesso negli stessi locali in cui suonavo io ai vecchi tempi. La suono da così tanti anni che alcuni pensano l'abbia scritta io. Me la sono sempre immaginata nello stile di Stefan Grappelli/Django Reinhardt e ho deciso di mettere il mio marchio sulla canzone e registrarla. Bobby Britt ci ha messo il fiddle, ma io non sono molto sicuro di essere stato bravo come Django ! L' autore è Rex Fowler.
Giulia Nuti
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