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Dr. John – N’Awlinz dis dat or d’udda
(Parlophone/Emi)



Per il suo miglior album degli ultimi anni Mac Rebennack torna ad esplorare le sue radici e quelle del famoso second line di New Orleans, uno stile tipico del luogo e risultato di mille misture. Dr. John torna sul luogo del delitto; questo è il suo secondo album dedicato a Crescent City e il risultato è ancora migliore a quello di una volta grazie anche al team che lo circonda: dal produttore Stewart Levine a una lunga sequenza di stelle locali e no.
Appaiono in questo disco alcuni grandi vecchi del New Orleans sound come l’arrangiatore Dave Bartholomew, il batterista Earl Palmer, Cyril Neville, la più giovane Dirty Dozen Brass Band, ultima delle grandi marching band ma prima di una nuova generazione di esse, e poi jazzisti che hanno sempre puntato il dito verso New Orleans come il trombettista Nicolas Payton. Il gruppo locale ( che non esiterei a definire folcloristico secondo la migliore accezione del termine) dei Mardi Gras Indians rendono l’atmosfera generale più naturale e meno virtuale e digitale svolgendo un ruolo importante ruolo nell’economia del disco.
In virtù dei suoi quarantacinque anni sulle scene per Dr. John è poi facile scomodare Randy Newman per una azzeccata versione di” i Ate Up the Apple Tree”, Willie Nelson, il più anarchico dei country meno in vita, per “You ain’t such a much” e mettere a sedere nello stesso studio e nella stessa session B.B. King e il vecchietto Clarence “Gatemouth” Brown per “Hen Layin’Rooster”. Eddie Bo alla tromba e Mavis Staples che canta ciò che resta di “When the Saints go marchin’ in” fanno il resto per un elegante tributo alla musica di New Orleans e alle sue differenti sfumature.
Oggi Dr. John non è più lo psichedelico Zu Zu man di una volta, il suo passato burrascoso non torna (quasi) mai a galla e la reputazione è altissima. Salvano Mac Rebennack dall’essere una piccola caricatura di se stesso proprio progetti come questo dove la sostanza e il contenuto sono così spessi da non poter essere intaccati da nessuna parte. Quel magico, folle personaggio che viveva di voodoo e mojo e gravitava ai bordi del grande sistema portando tutta la magia di New Orleans (ri)appare però in quei brani più notturni e in quelli che Mac affronta da solo, senza ospiti, come “Life’s a one way ticket”, un monito che l’artista si rivolge in prima persona e che la dice lunga sui trascorsi del nostro. Ed è questo senso dell’errore, del baratro a un passo, del camminare portandosi appresso gli spiriti, oltretutto tipico della vita quotidiana laggiù, che continua ad affascinarci di Mac Rebennack come se il suo passato non fosse del tutto stato cancellato.

Ernesto de Pascale



Ernesto de Pascale e Dr John Gegè Telesforo a DOC su RAI2 marzo 1988


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