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Joe Jackson & Todd Rundgren feat. Ethel quartet
Parco della Musica Roma
1 luglio 2005
An evening with two giants, very differents in their styles, bur great composers and performers.
Quando leggemmo sul programma che suonavano insieme stentavamo a crederci. Certo ci trovavamo di fronte a due grandi musicisti, ma mai personalità potevano essere più diverse.Eppure Joe Jackson e Todd Rundgren hanno calcato insieme lo stesso palcoscenico. Genio e sregolatezza Rundgren con una lunga carriera fatta di capolavori e di provocazioni del segno della Utopia con la U maiuscola. Songwriter raffinato l’altro, anzi “pennellatore” di melodie su una base armonica decisamente matura. Eppure il Dio della musica sa come guidare il caso: si può mettere due pezzi da novanta in scena senza che si facciano a pezzi. Anzi fa in modo che scatti quella particolare alchimia che solo i grandi (o alcuni di essi) sanno creare. Questo è successo alla cavea del Parco della musica di Roma, seconda e ultima data di un mini tour italiano dei due musicisti. I quali erano degnamente supportati da un quartetto americano, l’Ethel, (destinatari di un pezzo di Rundgren e già in tour con Jackson) protagonista della prima sezione della serata. Anzi dedichiamo subito loro un giusto tributo: mettono nella forma classica quel gusto tutto statunitense per il ritmo, il blues, il jazz, le armonie alla Aron Copland. Tra i brani di Marcelo Zarvos, di John King e i tradizionali rivisti e corretti, i quattro componenti dell’Ethel forse “picchiano” un po’ troppo secondo una visione tradizionale del quartetto. Ma tutto funziona, altro se funziona, anche perché il ruolo dei quattro musicisti assume alla fine una logica più ampia.
Torniamo però ai due protagonisti della serata. La dicotomia delle due parti del concerto (a proposito, nel biglietto d’ingresso accreditato al solo Jackson) è evidente. O meglio, c’è un punto in comune: la grande capacità compositiva dei due. Poi l’atteggiamento sul palco è totalmente diverso: Jackson è educato, timido, sempre protetto dal pianoforte, tipico figlio dell’Inghilterra colta che mischia formazione classica e rock’n’roll da pub. Rundgren è invece disinvolto, chiacchierone, litigioso con gli strumenti tanto da mettere fuori uso tre chitarre (meno male che c’erano anche il pianoforte e un ukulele), americano di origini scandinave figlio del soul e delle sperimentazioni trasversali. Ma la dimensione solista è congegnale a entrambi: Jackson è soprattutto un pianista, che però non può esimersi da mettere quel pizzico di rock che condiziona tocco e a volte fludità. Rundgren è soprattutto un chitarrista, ritmico e solista insieme. E poi ci sono le voci, belle entrambe. Quella di Jackson è a volte meno fluida sulle note alte, mentre Rundgren ha un’estensione vastissima con falsetti puliti e toni bassi profondi (d’altra parte ha inciso un album chiamato A-Cappella).
Passiamo ai brani, la cui scelta non ha certo deluso le attese. Jackson ha saputo tirare fuori i suoi migliori lavori, legando insieme all’inizio Be my number two e Steppin’out. Bella anche la versione di Is she really going out with him?, ma anche pezzi più recenti come Love First Light giocata su un tempo di valzer o Living in quiet age. Inoltre Jackson presenta anche un inedito, Citizen Sane. Rundgren non è da meno e pesca a piene mani tra i suoi brani migliori come I saw the light, Old Cliche, Black and White, Love of the Common Man and Beloved Infidel o Afterlife dal recente Liars. Ma anche una cover dei Beatles come You’ve got to hide your love away. Infine il gran finale con tutti i protagonisti, ma è Rundgren a dettare tempi e modi sul palco per il fuori programma. Got the Time, quindi Black Maria e chiusura con i fuochi d’artificio grazie ancora ai Beatles con While My Guitar Gently Weeps. Todd e Joe si alternano alla voce, mentre i due violinisti del quartetto imitano le chitarre di George Harrison ed Eric Clapton. Un’emozione che gli spettatori, non moltissimi in verità, non dimenticheranno tanto facilmente.
Michele Manzotti
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