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Ravi Shankar
30 giugno 2005 - Lione



I raga di Ravi Shankar sono forieri di piogge, ma solo l’ottantacinquenne maestro li sa fermare con la sua musica senza età e senza confini. Al teatro romano di Lione come a Monterey 28 anni fa, è piovuto fino a poco prima che il fragile virtuoso del Sitar si sia presentato sul palcoscenico con la sua “piccola” figlia prediletta, Anoushka, per una delle poche date europee di una tournée che suggella, a tutti gli effetti, il passaggio di testimone dal grande maestro alla straordinaria figlia.
Un pubblico composto da adulti che conobbero i Raga di Shankar attraverso i Beatles, l’amicizia con George Harrison, la psichedelia, il Monterey Pop Festival o il concerto per il Bangla Desh si mischiano casualmente con i ventenni che hanno sentito parlare della spiritualità del grande musicista fra una rassegna di film di Bollywood e una compilazione del Buddha Bar.



Dalla prima nota che l’anziano performer suona è però immediatamente chiaro che la superficiale visione di una musica e di un mondo lontano, che il marketing sta vendendo a piene mani in questi ultimi anni un po’ a tutti sull’onda di un trend per un target giovane, è ben lontana dallo spessore che Ravi Shankar propone, restituendo con la sua musica un rigore che non ha eguali nella civiltà occidentale.



Una nota profonda, in prima posizione, suonata da Ravi Shankar nelkl’arena romana cascata in un estatico silenzio di trance, una sola nota senza l’accompagnamento di nessun altro strumento – quindi non identificabile stilisticamente - è il biglietto da visita dell’intera serata.
Un’ora e quarantacinque in cui ha prevalso la varietà, senza mai sconfinare nel troppo meditativo, sono il cuore di un concerto in cui Shankar ha lasciato molto spazio alla figlia, costringendola, con la sua arte e il suo mestiere, a tirar fuori tutto il meglio di sé.



Anoushka suona come il padre quaranta anni fa: ha personalità, originalità, mai un attimo di indecisione. Il padre con poche note le ricorda la tradizione folclorica dello strumento, l’uso di esso come mezzo di una visione superiore della vita. La Shankar risponde con un piglio forte e si lancia in incastri ritmici con le tabla che non fanno rimpiangere i concerti del padre nei sessanta, con la platea in estasi.



E’ un trionfo annunciato e la conferma che i contenuti dei Raga che Ravi Shankar interpreta – e spiega fra un brano e un altro e l’altro - non hanno tempo. Stupisce e sorprende piacevolmente accorgersi come questo linguaggio musicale, così lontano da quello della musica occidentale, sia entrato fra le pieghe della nostra percezione in soli trent’anni. Altri linguaggi, diversi, lontani, esotici, non hanno fatto altrettanto bene e le commistioni di stili suonano spesso false. I Raga, di cui Ravi Shankar è un maestro, hanno trovato una propria identità in mezzo a noi. Noi, pur non avendo certo compreso l’identità di un popolo così lontano, ci siamo e ci poniamo domande attraverso i raga e la lezione di Ravi Shankar pare essere proprio questa: quella di continuare a spingere la sperimentazione, la domanda, la curiosità, la ricerca, fuori e dentro di noi.

Ernesto de Pascale

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