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John Hiatt - Master of disaster
(new west)
www.johnhiatt.com
www.newwestrecords.com



Southern’s harmony in the latest John Hiatt’s musical companion. A true return to form

C’è una bella aria di sud in “Master of Disaster“, un buon disco sciupato da una orribile (quanto riconoscibile) copertina. Aria di canzoni già ascoltate, di melodie antiche ma ancora presenti nell’immaginario dell’ascoltatore adulto. Perché è a un pubblico adulto si propone Hiatt, a quelli che lo hanno accolto in un ristretto gotha di eletti ai tempi di “Bring The Family“ e “Little Village“. Bei tempi, verrebbe da dire. Hiatt ha ancora belle canzoni (“thunderbird“, il blues dal sapore inconfondibile della Louisiana di “Wintertime blues“, la ballatona “when my love crosses over”) da proporci e questa è la migliore delle notizie che potevamo attenderci dal primo ascolto di “Master of Disaster“. La seconda grande notizia è che, con l’ausilio di Jim Dickinson, figura chiave della scena americana dai sessanta a oggi, John ha firmato il suo capolavoro di equilibrio e classe che da anni ci mancava. Fanno molto anche i giovani accompagnatori di Hiatt fra i quali spiccano di due giovani figli di Jim Dickinson (Cody e Luther), fondatori dei North Mississippi All Stars, il sempre solidissimo David Hood (il figlio è quel Patterson, leader dei Drive by Truckers che piacciono tanto al Popolo del Blues), il sassofono di Jim Spake e la tromba di Scott Thompson, due nomi che i frequentatori di Sweet Soul Music a Porretta ben conoscono. Questa band suona la musica di john Hiatt proprio come solo un vero gruppo sa fare e si sente la differenza. Hiatt da molto inseguiva il sogno della band perfetta, nei dischi precedenti a questo era chiaro il messaggio: la sua musica fa un balzo in avanti quando a suonarla non ci sono dei semplici turnisti ma musicisti che pensano con un solo cuore e un solo battito. Così in “ain’t ever going back no more“ l’ombra di Otis Redding pare annuire sulla performance generale, tutta fatta di tensione e sguardi intuitivi, per suggellare il più intenso brano del disco mentre in “find you at last “ tornano alla mente le voci di Eddie Floyd e Wilson Pickett.
“Master of Disaster “ non è il capolavoro che certi giornalisti hanno voluto sventolare ai quattro venti – più contenuta è stata la stampa britannica che ne ha posto l’accento lo sforzo e il risultato generale, contestualizzando meglio l’intero disco – ma è il miglior disco di Hiatt da anni. L’album si conclude con due piccoli brani acustici, un po’ country un po’ blues, un po’ “canzone scritta dopo pranzo“ che fanno molto “country got soul“, soprattutto la veramente bella, conclusiva, “Back on the corner“. Ma John Hiatt non è né Dan Penn né Spooner Oldham. Per fortuna John è, però, se stesso e per questo piace, per quel senso di fragilità da perdente che ha risalito la china per scendere e risalire ancora.
Non vi possiamo dire in questa sede se l’artista (come molti, d’altronde) sia un personaggio autodistruttivo o meno (il titolo “master of disaster“ non fa pensare bene…). Certo è che Hiatt ha lavorato molto per rendere la sua vita un romanzo complicato. Se lo volete leggere è tutto scritto qui, in questo “Master of Disaster“.

Ernesto de Pascale


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