. Silver Jews
Silver Jews
23 giugno 2006, Rockin’ Umbria, Umbertide

Non esiste metro di paragone per giudicare le esibizioni di David Berman e della sua creatura, i Silver Jews, arrivata dopo ben tre lustri al primo tour e alla stabilità necessaria per essere definita gruppo rock a tutti gli effetti. Troppo a lungo i Jews sono stati scambiati per un progetto secondario ai Pavement, complice la presenza di Stephen Malkmus e Bob Nastanovich, quando in realtà furono proprio loro due, insieme a Berman, a riunirsi sotto il nome Silver Jews nel lontano 1989. Da allora Berman è l’unico che ha mantenuto la continuità del gruppo, dividendosi fra musica e poesia (Actual Air il titolo della sua prima raccolta di versi, uscita nel 1999), e scegliendo di evitare completamente i concerti dal vivo. Un copione andato avanti fino all’uscita di Tanglewood Numbers, album che per David segna la rinascita dopo quattro durissimi anni spesi a combattere contro droga e depressione. Appena finite le registrazioni arriva l’annuncio inaspettato di un tour internazionale, notizia che allarma i fan sparsi per il mondo, da tempo rassegnati all’idea di non poter ascoltare dal vivo pezzi come Advice to the Graduate o Send in the Clouds. Con lui viaggiano la moglie Cassie, che dei Jews è ormai bassista a tempo pieno, e una band che Berman ha intenzione di mantenere nel tempo, forse per esorcizzare lo spettro di Malkmus, forse diventato troppo ingombrante da gestire e che regolarmente spuntava fuori nelle interviste. Ma la vera buona notizia arriva appena il gruppo sale sul palco: Berman non ha più paura di doversi nascondere e usa il suono del gruppo, ben più rumoroso che su disco, quasi come se fosse uno scudo. Non sarà mai un animale da palcoscenico, e per tutta la durata del concerto aleggia sempre la sensazione che magari avrebbe voglia di fare altro piuttosto che suonare di fronte ad un pubblico, ma il risultato finale è una versione insolitamente potente e ruvida del country-rock intellettuale che vive nei suoi dischi di studio. Ed in questo le versioni dal vivo di Sometimes a Pony Gets Depressed e Punks in the Beerlight rappresentano il nuovo tono dei Silver Jews, forse meno amaro che in passato, di certo più muscolare e liberatorio.


Come mai i Silver Jews arrivano solo adesso al loro primo tour?

Potrei darti parecchie spiegazioni per questo ritardo. Tanti miei amici della mia età hanno speso gran parte della loro vita suonando in gruppi e ora si sono in qualche modo fermati, hanno formato le proprie famiglie e si sono “addomesticati”. Devo ammettere che in passato ho spesso sentito di non poter competere con le persone della mia età, pensavo di dover semplicemente aspettare e limitarmi al ruolo di osservatore. Poi, verso la fine delle registrazioni di Tanglewood Numbers mi sono reso conto di avere l’opportunità di girare il mondo e portarmi appresso queste nuove canzoni, di avere la band giusta per farlo e che forse era davvero arrivato il momento. A dire il vero ci sono momenti in cui mi sento in colpa per aver portato in giro questi musicisti ed averli costretti a starmi dietro, ma poi penso che i ragazzi sono contenti e che forse non è il caso di ascoltare tutte le voci che ti girano in testa.

Ritrovarsi in tour e stare così bene ti ha sorpreso?

Sì, assolutamente. Tutti pensavano che non ce l’avrei fatta, che ad un certo punto avrei sentito troppa pressione e sarei tornato a casa, o peggio, che sarei andato in esaurimento. Dopo la prima data mi sentivo un po’ a disagio e credevo anch’io che sarebbe finita così, ma pian piano le cose hanno preso il verso giusto. Gran parte del merito di tutto questo va alle persone che sono con me, da mia moglie ai ragazzi della band, e all’atmosfera rilassata che abbiamo saputo ritagliarci.

Come sei arrivato a suonare con i tuoi attuali musicisti?

Vengono più o meno tutti dalla mia cerchia di amici. Il batterista è più giovane di me, mi imbattevo sempre in lui durante i miei primi mesi a Nashville, Tony e William avevano già suonato in Bright Flight e American Water mentre l’altro chitarrista compariva addirittura su The Natural Bridge. Quando ho messo in piedi questa band volevo creare un vero e proprio nucleo, non volevo che fosse qualcosa del tipo “David Berman e il suo gruppo di supporto”.

Quindi vedi un futuro per questa incarnazione dei Silver Jews?

Direi di sì, umanamente c’è una bella atmosfera e viviamo tutti a Nashville, il che non guasta sotto il profilo pratico.

Dopo ciò che hai passato, è stato difficile fermarsi e comporre Tanglewood Numbers?

Sì. C’è voluto molto tempo ma è stato il primo disco che mi ha regalato la sensazione di poter rendere felici certe persone, qualcosa che in vita mia non avevo mai provato né tantomeno associato alle mie canzoni. All’inizio ho faticato nella scelta dello studio e delle persone adatte con cui lavorarci, avevo molte idee ma non trovavo una sintonia col primo produttore che avevo scelto, così ho deciso di prendere in mano la situazione e dare alle mie canzoni il volto che volevo, in questo senso Tanglewood Numbers è il primo disco che mi vede totalmente in controllo delle cose.

Pensi che sia il tuo album migliore?

Sì, assolutamente. E’ l’album dove ho messo più emozioni e stili musicali, prima non avevo mai raggiunto uno spettro così ampio.

Non credi che Tanglewood Numbers ti stia ponendo in una posizione differente rispetto a prima? Voglio dire, sei in tour, hai una tua band e un album che è stato promosso bene, sembra proprio una vita da musicista professionista…

Prima le cose erano più disordinate, mi dividevo fra scrittura e musica in un processo che spesso era molto dispersivo, mentre a questo punto della mia vita penso di dover mettere più energia nei Silver Jews, forse anche per reazione a tutto ciò che ho passato. Ci sono stati momenti in cui sentivo di non aver più voglia di vivere, e i Jews sono stati inevitabilmente trascinati in questo gorgo, ma per fortuna da un paio di anni la mia vita ha registrato un certo miglioramento (ride, forse pensando all’eufemismo appena pronunciato, NdI) e tutto è ripartito.

Come hai scelto le canzoni da portare in tour?

Ho iniziato scegliendo qualcosa come trenta canzoni da provare, poi via via ho ristretto la scelta ad una ventina o poco più. In tutto sono otto canzoni da Tanglewood Numbers, una da Starlite Walker, cinque da The Natural Bridge, tre da American Water e quattro da Bright Flight. Ho scelto di portare in tour solo pezzi in cui canto da solo, lasciando fuori quelli dove ha cantato anche Stephen.

Sei un autore noto per l’importanza dei testi che scrivi. Come scrivi le tue canzoni? Parti dalle parole o dalla musica?

Scrivo parole tutto il tempo, e quando trovo una melodia giusta cerco di integrare le due cose. Ho sempre bisogno di un verso da cui scaturisca una scintilla, ma in futuro mi piacerebbe invertire il processo e partire dalla musica.

I Silver Jews esistono dal 1989 e hanno debuttato su album nel 1994. Pubblicherai mai materiale relativo a quei primi cinque anni di vita?

In cantina ho uno scatolone intero di cassette che risalgono ai primi anni ’90, ma la maggior parte di quella roba è a dir poco imbarazzante. Vorrei ristampare il nostro primo sette pollici e anche il primo EP, e magari più avanti anche un cd che raccolga alcune rarità, ma non voglio fare come certi gruppi che stamperebbero anche i primi demo pur di spillare qualche soldo al proprio pubblico.

Se dico “anni ‘90” cosa ti viene in mente?

Mi viene in mente come, da un secondo all’altro, il mio coinquilino (Stephen Malkmus, NdI) sia diventato una specie di rockstar, amato e cercato da tutti. Ricordo di essere andato ad una data del Lollapalooza proprio per vedere i Pavement e in giro c’era gente come Courtney Love che ne tesseva le lodi tutto il tempo, era davvero una sensazione strana. Poi, dal nulla, il pubblico iniziò a tirare fango poco dopo l’inizio del concerto, penso allo scopo di divertirsi, con Steve che cercava di scappare e Bob che urlava alla folla di smettere. Che tempi.

Cinque dischi che hanno segnato la vita di David Berman.

(ci pensa un attimo e poi li elenca di getto, NdI) Night Life di Ray Price, Honky Tonk Masquerade di Joe Ely, Wild Gift degli X, You’re Living All Over Me dei Dinosaur Jr. e What We Do Is Secret, il primo EP dei Germs, ma dovendo scegliere un album intero vado con Fables of the Reconstruction dei R.E.M.

Bernardo Cioci

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